Il dibattito sulla consultazione referendaria e sulla candidatura olimpica è lo specchio della stessa sindrome: la viziosa capacità italiana di trasformare questioni di lungo periodo in strumento di propaganda politica ad uso immediato. Si nega lo sport senza contestarne le grandi magagne. Si sacrificano le istituzioni nel nome dell’indice di gradimento. Vadano a quel paese.

 

A quel paese il referendum di ottobre e le Olimpiadi di Roma 2024.
Non vale la pena di spendersi, e neppure di scomodarsi, per due eventi e due casi molto differenti tra loro, ma che condividono la stessa, inquietante sindrome tipicamente italiana: se ne parla non per quello che sono, ma per lo strumento politico che sono diventati.
Da istituzionale, il referendum si è trasformato, o meglio è stato trasformato, in voto politico. Un voto di fiducia popolare. Di consenso o sconfessione del governo, cioè di Renzi. Il quale, furbissimo, è stato però il regista della mutazione e ora plasma la faccenda e i toni che la accompagnano come meglio gli serve. Ondeggia tra le macerie di destra e sinistra per captare consensi bipartisan. Divide et impera (non a caso ha fatto il mio stesso liceo classico, qualcosa dev’essergli rimasto).
Non è una critica, è una constatazione. E mi è difficile negare la maestria con cui il premier, non eletto e nominato da un presidente golpista, riesce da anni a tenere tutti in scacco, compagni di partito compresi, giocando sulla dialettica e sull’equivoco ideologico, sulla prevalenza dei contrapposti interessi e sulle rendite di posizione partitiche.
Ciò al di là del giudizio sulla sua politica e il suo governo.
Il paese si è diviso non sul quesito referendario, ma sull’appartenenza politica che esprimerlo ricattatoriamente comporta.
Il che mi nausea e mi allontana senza rimedio dalle urne.
Da sportivo-economico (o viceversa), anche il dibattito sulla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024 è diventato, anzi è stato maliziosamente trasformato, in politico-ideologico. E quindi latamente elettorale.
Governo contro 5 Stelle, maggioranza contro opposizione, argomenti demagogici contro argomenti demagogici, sgarbi istituzionali, sante alleanze, tutto in chiave di supremazia dialettica. Sostanza, zero.
Amo lo sport, ma non ci vuole Einstein per capire che lo sport di oggi e gli eventi ad esso legati hanno poco di sportivo. Innanzitutto esso è diventato, non da ora in verità, strumento di propaganda. Poi di business. Ma fin qui vada, senza lilleri non si lallera, inutile nascondersi dietro a un dito. C’è però il doping. Non tanto quello chimico, così diffuso ma ormai quasi coreografico, destinato al tramonto rispetto a quello del futuro: finanziario e tecnologico. Il primo ha trasformato lo sport in spettacolo e gli atleti in attori. Calcio, F1, atletica, rugby, motociclismo, ciclismo, nuoto, golf: ai massimi livelli è solo un grande wrestling, uno show che obbedisce, giustamente, alle regole dello spettacolo e degli impresari anzichè dello sport, incluso il costante titillamento dell’emotività popolare un tanto al chilo o a lacrimuccia. Il secondo ha trasformato la prestazione tecnico-fisica, l’essenza del gesto sportivo, in prestazione nervosa o in prestazione meccanica: spogliati del talento dall’elettronica, i piloti sono divenuti dei maestri di videogame attaccati a una cloche, mentre la tecnologia sta portando gli atleti a prevalere non grazie alla forza, ma alle appendici più o meno lecite capaci di moltiplicarla. Mi riferisco a biciclette col motorino nascosto, alle protesi che presto renderanno gli amputati più veloci dei normodotati, ai costumoni e alle mille altre diavolerie destinate a essere inventate, poi utilizzate, poi proibite, poi migliorate, poi rilegalizzate, in una sequenza senza fine. Per non parlare delle questioni di genere e di ormoni, una bomba atomica che sta già imbarazzando il governo mondiale dello sport e rendendo sempre meno credibili le gare femminili.
Potevano essere questi degli argomenti validi, o almeno sostenibili, contro la candidatura romana.
Ma siccome alla gente non piace che si parli male dello sport, che è il companatico del panem quotidiano, ecco che i politicanti antiolimpici evocano invece, per giustificare il niet, i soliti spettri socioeconomici, i fantasmi del mattone, lo spauracchio del debito. Non osano dire che il vero (e giustificato) loro timore è l’incapacità del sistema di tenere sotto controllo la corruttela che un progetto olimpico tendenzialmente mette in moto e la catena di inefficienze che esso attiva e costringe a nascondere, tamponare, dissimulare.
Da parte loro, del resto, non è che i filolimpici abbiamo portato argomentazioni migliori. Anzi: anche loro lancia in resta con la retorica sui valori che lo sport non ha quasi più e le solite baggianate sui posti di lavoro, il fatturato generabile, l’immancabile “crescita“, l’innovazione, tutta roba che dimostra un’assoluta mancanza di lungimiranza e di realismo, una sospetta miopia verso le magagne del sistema-sport ricordate sopra, la tendenza a ideologicizzare, esattamente al pari dei loro antagonisti, una diatriba destinata a trasformarsi, come in effetti si è già trasformata, in carne da cannone della politica.
Il solito teatrino.
E allora affanculo il referendum e le Olimpiadi.