di URANO CUPISTI
Nel dicembre del 1966 la città del Quebec si apprestava ad ospitare l’Expo Universale e aveva iniziato i lavori della città sotterranea più grande del mondo. Nulla però a confronto dei 50 km di acque ghiacciate che separavano le sponde del fiume, rotte con fragore dai rompighiaccio.

 

Nel dicembre del ’66 ero libero dagli studi: avevo in tasca il secondo diploma ed aspettavo la “chiamata” per partire per l’Iran con la Snam Progetti.

Ne approfittai per l’ennesimo viaggio con mio padre, marinaio che allora faceva la rotta fissa Brindisi-Montreal-Brindisi con una nave cargo per trasportare grano sfuso destinato ai pastifici pugliesi, campani e abruzzesi.

Lo raggiunsi Montreal con l’aereo, via New York, in un clima polare.

All’arrivo mi sentii un po’ spaesato: l’aeroporto era moderno, stile americano, ma le voci avevano un suono diverso: benvenue a Montréal.

Grattacieli molto più bassi che a New York, strade in parte acciottolate, come il classico pavé della Francia del nord, tutte le pubblicità in francese e un tassista oriundo siciliano con tanto di baffi e coppola che mi parlava uno strano slang siculo-anglo-francese.

Il mio babbo mi attendeva al “confine portuale” per aiutarmi  con le registrazioni di ingresso. Lasciò una lauta mancia al conducteur, che ringraziò scappellandosi alla siciliana.

La nave era quasi carica: avrei avuto a disposizione due giorni per visitare Montreal, cosa che feci accompagnato, come spesso era accaduto anche in altri viaggi, dal corrispondente canadese della società armatrice. A bordo di una Cadillac.

Allora Montreal era  la principale città del Québec e la seconda, dopo Toronto, di tutto il Canada. Si preparava a ospitare, l’anno dopo, l’Esposizione Universale ed era un cantiere a cielo aperto.

Mi piacque molto, anche se di primo acchito mi parve non avere un’identità. Poi capii che i tanti, evidenti contrasti erano accomunati da una marcata atmosfera europea. Soprattutto nelle periferie. Non mancai di addentrarmi nella Petite Itale (la comunità italiana è la seconda tra le minoranze presenti in città) e nemmeno di farmi una corsa nella modernissima metropolitana, inaugurata da poco.

Ma la sorpresa che più mi colpì, e che al ritorno in Italia raccontai come se fossi stato sulla luna, fu la visita alla stupefacente città sotterranea, sebbene fosse ancora in costruzione e usufruibile solo in piccola parte.

In un opuscolo trovai scritto che il suo scopo era “migliorare la circolazione delle persone, evitando loro di rimanere bloccate nel traffico automobilistico, soprattutto in inverno, quando il termometro a volte raggiunge i 20 gradi sotto zero”. Non faceva una piega.

Si trattava di un vero e proprio labirinto pedonale ipogeo, super riscaldato. Una rete multilivello di tunnel e scale che, ancora oggi collegano, tra loro hotel, edifici pubblici, centri commerciali, scuole, praticamente tutto ciò che si può trovare in un insediamento urbano di superficie. Ideata dal visionario Vincent Ponte, ha raggiunto oggi 33 km di sviluppo.

Ma la mia nave carica di grano era pronta a salpare. E lo fece di notte, scortata da due rimorchiatori rompighiaccio.

Dovevamo spingerci infatti verso Nord-Nord Est, all’immensa foce del fiume San Lorenzo (anzi del Saint-Laurent, come lo chiamano da quelle parti) sull’Oceano Atlantico.

Ville de Québec, riportata sulle mappe come Quebec City, l’avvistammo di prima mattina, in una notte polare che stentava a cedere alla luce diurna.

Il susseguirsi di “fischi” dei due rimorchiatori avvertirono del nostro passaggio i numerosi traghetti-rompighiaccio che attraversavano il fiume ghiacciato per portare i pendolari da la Ville alla dirimpettaia cittadina di Lévis e viceversa. La neve gelata sul fiume era diventata una sorta di strada percorsa da motoslitte. L’impressione fu forte.

Dal ponte di comando respirai a pieni polmoni quella meraviglia invernale avvolta dal rumore, a volte davvero assordante, del ghiaccio che si spezzava sotto il peso dei due scafi, mentre altre piccole città e villaggi ci sfilavano accanto, illuminati dalla luce di giornate brevissime. Era uno spettacolo quasi spaventevole, ma che mi conquistò.

Sulla sinistra avvistammo La Malbaie, centro turistico estivo che d’inverno si riduce a poco meno di 10.000 abitanti. Era spazzata da un vento impetuoso. Lì l’ampiezza del fiume raggiunge i 20 chilometri da sponda a sponda. Per effetto della brezza, la temperatura scese dai -28° reali ai -32° percepiti.

Dopo un paio d’ore avvistammo a dritta l’imponente mole della Basilica di Sainte-Anne-des-Monts. Nonostante fossimo ancora più a Nord e sottovento, la temperatura era più mite: di -15°. L’estuario del San Lorenzo mi apparve allora in tutta la sua inimmaginabile estensione. Solo col binocolo riuscii ad intravvedere la costa opposta, lontana ben 48 chilometri.

L’acqua dolce del fiume ormai si mescolava con quella salata dell’Oceano. Con la fine del San Lorenzo era terminato anche il ghiaccio. Avevamo raggiunto il golfo, così i due rimorchiatori ci salutarono e iniziarono a far strada a ritroso ad un altro cargo il direzione di Montreal.

Doppiammo Capo North Lighthouse prima di prendere il largo nell’Atlantico zigzagando tra enormi icerberg provenienti dalla Groenlandia, il Labrador e Terranova.

Ci vollero diversi giorni di navigazione per raggiungere le Azzorre e riconquistare la luce. Il sole tornò a scaldarci un po’ e a farci respirare aria di casa.