di URANO CUPISTI
Decisi di concedermi un viaggio sulla mitica ferrovia nel 1983, quando il compagno Juri sembrava voler portare “una ventata di possibili libertà” e invece poco manca che scatena una guerra nucleare. Ma io avevo un’arma segreta: la Nutella. Ecco come andò l’avventura.

 

Era la fine del 1982 ed ero molto indeciso se partire in febbraio o in ottobre. “In autunno il clima è più favorevole e i colori sono affascinanti, con la vegetazione di conifere che si tinge di un rosso acceso”, leggevo sulla guida presa in prestito alla biblioteca comunale della mia città. In quegli anni del resto internet non esisteva e il profumo della carta faceva da contorno alle mie ricerche su riviste, libri, romanzi.

I romanzi, appunto: ripensai alle atmosfere del Dottor Zivago e scelsi di affrontare l’avventura in pieno inverno.

Fui fortunato e, in qualche modo, anche preveggente perchè l’anno che venne si rivelò parecchio difficile per i rapporti Est-Ovest: a marzo terminò lo spiegamento in Europa dei missili nucleari Pershing II, a settembre un aereo della Korean Air Lines con 269 passeggeri, finito per errore a sorvolare lo spazio aereo dell’URSS, venne abbattuto dai sovietici, a novembre le esercitazione della Nato vennero scambiate per un tentativo di attacco e si andò vicini a una guerra atomica.

Ma io salii a bordo prima che succedesse tutto questo e fu un’esperienza incredibile: toccare la realtà della vita dei nomadi mongoli, scoprire come persone che non hanno nemmeno l’elettricità possano vivere a temperature di 38° sotto zero, unirsi a loro e scoprire le attività quotidiane. Era una sfida da veri viaggiatori e io la affrontai con slancio.

Provai l’ebbrezza di vivere nel tepore mentre il treno sibilava nella notte siberiana, godendomi il calduccio nelle carrozze col riscaldamento al massimo e, di giorno, di farmi accecare dal candido reverbero della steppa ricoperta di neve mentre sorseggiavo un tè bollente. Cosa vuole di più “colui che cerca”?

Tutto ebbe inizio con i primi contatti con l’ambasciata sovietica in Italia. Il clima politico pareva favorevole: si annunciava che Juri Andropov, il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica appena insediatosi a Mosca, volesse portare “una ventata di possibili libertà”. Così ebbi l’ok del nascente Ufficio Turistico Sovietico con i dovuti visti e un memorandum da mandare bene a mente: abbigliamento consono, niente scarpe con evidenti sponsorizzazioni, niente jeans, niente letture “equivoche”, niente valigie, solo uno zaino capiente e un sacco a pelo termico. Il giubbone? L’avremmo acquistato a Mosca su suggerimento del “compagno accompagnatore” (per essere il più possibile simile agli altri). Logicamente con un colbacco munito di stella rossa.

Mi ritrovai così all’aeroporto Seremet’evo di Mosca atteso da Andrei, la guida che mi avrebbe accompagnato fino a Vladivostok.

Raggiungemmo l’Hotel Maroseyka, vicino alla Basilica di San Basilio, punto di raccolta per incontrare tre “compagni d’avventura” provenienti da Danimarca, Olanda e Lussemburgo. Fatte le presentazioni, Andrei ci consegnò gli orari per la cena e la partenza del giorno dopo.

Prima dell’assegnazione delle camere, il controllo minuzioso di quanto contenuto nello zaino. In un locale appartato verificarono che gli abiti, pantaloni, magliette non fossero “ambasciatori di marchi occidentali”, poi via in un negozio specializzato dei Magazzini GUM ad acquistare il “giubbone sovietico” e il colbacco da Armata Rossa. Il piumino canadese con cui ero arrivato fu ben piegato e sigillato in un sacco custodito dall’hotel fino al momento del ritorno in Italia. E meno male che non c’era più Leonid Breznev.

Il giorno dopo eccoci alla stazione Yaroslavsky in Piazza Komsomolskaya, che raggiungemmo in metropolitana. Disbrigo dei biglietti e inizio dell’avventura nella carrozza n°3. Nessun scompartimento, letti a castello con tendine per la privacy. Scelsi, su suggerimento di Andrei, quella in alto, perché di giorno quelle sotto venivano ribaltate per fungere da tavolino con due posti a sedere per mangiare, giocare a scacchi, leggere e condividere il tempo con gli altri.

Avvertimmo un forte colpo e la carrozza ebbe un sussulto: avevano attaccato i due locomotori. Che figata quei nuovissimi motori diesel CSX con stella rossa sul frontale. Ma perché due motrici per solo otto carrozze? Il secondo, mi fu spiegato, in caso di avaria del primo sarebbe servito per raggiungere la stazione più vicina e la relativa officina. In effetti non doveva essere piacevole restare bloccati in pieno inverno nel nulla russo in attesa di essere rimorchiati, pensai.

Infatti iniziò subito a nevicare e ci ritrovammo immersi in un’atmosfera magica.

L’organizzazione a bordo era essenziale, ma nulla si rivelò lasciato al caso.

I miei timori di noia nella prospettiva di passare giorni e giorni in treno furono presto clamorosamente smentiti. Mi ritrovai infatto come nel mezzo di un palcoscenico teatrale in movimento dove si recitava un testo poliglotta, tra cantilene inusitate e risvegli in posti completamente diversi dai precedenti.

La prima sosta fu a Kazan (795 km da Mosca), capitale del Tatarstan, la regione musulmana dei tatari sul Volga dove l’ateismo di stato non era riuscito del tutto a cancellare le tradizioni. Avrei voluto fare una sosta di almeno un giorno, ma Andrei disse che non era compresa nel programma.

I monti Urali, studiati a scuola come confine tra Asia ed Europa, iniziarono a prendere forma. Aveva smesso di nevicare e il sole illuminava le vette. Non ce ne eravamo accorti, visto la vita frenetica di bordo, ma avevamo già percorso 1.700 km dei circa 9.000 previsti.

Arrivammo a Ekaterinburg. Una Uaz militare ci prelevò per una “fuga di un’ora” a vedere un obelisco che segna il punto d’incontro tra i due continenti: lì celebrammo il rito del “brindisi intercontinentale”con spumante del Volga e foto ad immortalare il momento. Eravamo entrati ufficialmente in Siberia.

Scioccamente chiesi: “Ma non fu trucidata qui l’intera famiglia dell’ultimo zar?”. Un’occhiata di Andrei mi fece capire che era meglio non chiedere.

Risaliti in carrozza ci accorgemmo che i viaggiatori di prima non c’erano più. Adesso erano tutti mongoli diretti a Irkutsk. Una distesa di betulle innevate preannunciava la steppa siberiana, la terra che dorme e che ci avrebbe accompagnati per molti, molti chilometri. Feci nuove conoscenze e ascoltai lingue incomprensibili. Solo la scacchiera riusciva ad accendere una sorta di conversazione.

Ma avevo in serbo la mia personale arma segreta per rompere (è proprio il caso di dirlo) il ghiaccio: l’occidentalissima Nutella. Tre barattoli grandi e numerose confezioni monouso. Nella carrozza n. 3 fu il delirio e in tanti vollero partecipare ai copiosi Nutella Party da me organizzati, macchinisti compresi.

Omsk e Novosibirsk le vedemmo dal finestrino. “Non rientrano nelle visite previste dal programma” fu la solita risposta del compagno Andrei. Irkutsk era la nostra successiva meta.

La raggiungemmo di prima sera. Questa volta dovemmo dire addio alla carrozza n. 3, alla quale ci eravamo affezionati. Era previsto uno stop di tre giorni per la visita del Lago Baikal. Ci fu il tempo per una doccia ormai necessaria e per una dormita senza il rumore dei binari in convivenza forzata coi mongoli.

Al mattino di buon’ora una Uaz 452, la mitica “pagnotta” (buhanka), messa a disposizione dal presidio militare locale, ci prelevò dall’hotel in direzione isola di Olchon. La pagnotta dotata di ruote chiodate mordeva la superficie ghiacciata. Fu come perdersi nell’immensità.

Il lago Baikal è profondo 1600 metri ed è lungo e stretto: 636 km per 79. Contiene, notizia strabiliante, il 23% del totale dell’acqua dolce presente sulla terra. Lo strato di sedimenti sul fondale è il più spesso del pianeta e tocca gli 8500 metri (poco meno del K2!). Ciò rende la depressione profonda quasi quanto la Fossa delle Marianne! E’ il lago dei record e degli estremi.

Fissammo il nostro campo-base là dove il bacino risulta più profondo, in tende termiche militari per due persone con tanto di stufetta a carbone per vincere il freddo della notte, che arrivò fino a -38°. Vivere il lago con i soli riferimenti dell’alba e del tramonto, senza orari, e camminare sulla sua superficie trasparente fu emozionante. Incredibile vedere i miliardi di bollicine di metano intrappolate nel ghiaccio rilasciate dalle alghe del fondale. A tratti le lastre di ghiaccio ci facevano sentire simili a insetti nell’ambra. Fu questo uno dei tanti temi sviscerati nella serata sul pack, dove consumammo l’ultimo residuo di Nutella.

Il giorno dopo, levate le tende, continuammo la traversata sulla pagnotta fino alla riva opposta, per poi prendere la strada verso la città di Ulan Ude, vicino al confine con la Mongolia.

Un cartello ci ricordò che Mosca era distante 5.675 km e che ne dovevamo percorrere in treno ancora 3.500 prima di Vladivostok.  All’epoca Ulan aveva circa 300.000 abitanti e ci apparve davvero un luogo sperduto nel freddo siberiano. Era ed è ancora il punto di partenza della Ferrovia Transmongolica diretta a Pechino. Nel 1983 era assolutamente interdetta a qualsiasi straniero e utilizzata principalmente per trasporti militari.

Della città ricordo solo una statua gigantesca di Lenin eretta a perenne ricordo della rivoluzione bolscevica nella piazza centrale.

Cambiammo treno. Non più quello “comodo” che mi aveva portato fino ad Irkutsk ma quello più tradizionale, mosso da un’antica vaporiera a carbone con carrozze veramente “siberiane”. Tutte in legno con cuccette in stile “chi prima arriva prima alloggia” e, al centro, una stufa in ghisa anch’essa a carbone che permetteva di avere sempre acqua calda per qualsiasi uso.

C’era un mongolo buriato che cucinava, si fa per dire, per noi. Pollo, uova, patate e pesce sotto sale. Da immaginare l’olezzo nella carrozza. Ti addormentavi accanto a un mongolo e ti risvegliavi accanto a un altro. Il bagno era dietro una porticina e il buco nel pavimento dava direttamente sulle rotaie.

Andammo avanti per quattro giorni, con numerose fermate in paesini senza corrente elettrica dove di notte assistevi ad uno spettacolo difficilmente dimenticabile: puntini illuminati chissà con cosa, persi nella steppa innevata, a ricordarci che anche a queste latitudini si può vivere.

Andrei ci ricordò che stavamo per cambiare il settimo fuso orario dopo la partenza da Mosca: eravamo vicini alla meta.

Arrivammo la mattina presto: Vladivostok era il termine (o inizio, secondo la direzione) della Transiberiana. Ad attenderci, dei militari ed alcuni funzionari locali del partito. Nessun sorriso, nessuna stretta di mano. L’unico a salutarci fu Andrei, che non rivedemmo più.

Un’altra “pagnotta” ci portò direttamente all’aeroporto, dove un aereo dell’Aeroflot ci aspettava per il rientro a Mosca, via Novosibirsk. Di Vladivostok ci rimase una veduta dall’alto al momento del decollo.

Giunti a Mosca, ritiro degli indumenti all’Hotel Maroseyka e subito all’aeroporto Seremet’evo. Le lungaggini sofferte all’arrivo si dissolsero: check-in guidato e velocissimo.

Le foto scattate e promesse da Andrei non arrivarono mai.

E le nostre furono cancellate dai metal detector dello scalo.

Della Transiberiana sovietica mi restano solo i ricordi. Ma che ricordi