Oggi il Nobel per la letteratura del 1988 avrebbe compiuto cent’anni. Lo incontrai esattamente un decennio fa, dopo un inseguimento avventuroso. Doveva essere un’intervista, fu invece un lungo pellegrinaggio. Compiuto, attraverso i suoi occhi, nelle pieghe cangianti della città islamica. Questo è ciò che ricordo. E l’articolo che scrissi un mese dopo per Gulliver.

Il tassista, squinternato proprio come il suo taxi, partì sgassando dal cortile dell’albergo e ammiccando nello specchietto con un idioma improbabile. Ovviamente non lo ascoltai, ma non solo perchè non capivo una sola parola. Insomma, stavo andando a intervistare Mahfouz, Naguib Mahfouz. E riuscire a incontrarlo era stata – anzi, continuava ad essere – un’avventura degna di una spy story.
L’anziano scrittore era protetto da una rete di amici invisibile e labirintica. Amici-scherani o scherani-amici, difficile distinguere. Una sorta di cortina osmotica, di dedalo imperscrutabile, di gioco dell’oca pieno di trabocchetti, penalità, passaggi a vuoto. Quella però sembrava la volta buona. Lo scrittore mi aspettava, dicevano, in un non meglio precisato hotel a nord del Cairo. Dove, mi garantirono, il loro tassista sapeva arrivare perfettamente.
Lui fece un giro incomprensibile. Imboccò interminabili viadotti lungo il Nilo, poi raccordi che parevano autostrade, tra cantieri immensi, brandelli di deserto e casupole dell’estrema periferia. Schiacciava forte l’acceleratore e parlava, parlava. Io fingevo di seguirlo e tentavo invece di orientarmi. Il percorso fu tortuoso. Non saprò mai se per ingannare me o i presunti pedinatori. Da un cartello capìì finalmente che stavamo entrando a Heliopolis, antica città cultuale ed oggi anonimo sobborgo cairota. Arriviamo all’ingresso di un grande, incolore albergo per uomini d’affari. Bandiere stinte dal sole, palme, intonaci di un bianco polveroso tipico di certi resort egiziani.
Scendo e alla reception chiedo, come mi era stato detto, di un certo Alì. L’impiegato alza il telefono, bofonchia qualcosa alla cornetta, mi prega di attendere.
Dopo un minuto arriva Alì. Quarant’anni, stempiato, grassoccio, passo svelto, un completo beige un po’ stazzonato. Si presenta come uno scrittore amico del “maestro“. Mi fa cenno di seguirlo. Ci addentriamo tra i corridoi. Bussiamo a qualche porta, passiamo. Strette di mano. Altre porte. Passiamo ancora. Poi arriviamo alla stanza 212. Toc toc. L’uscio si apre, la stanza è pieni di gente che parla ad alta voce, fuma, cammina.
Stretto nella sua sahariana marrone scuro, minuto, magrissimo, appoggiato a un bastone, quasi nascosto dietro un paio di occhiali spessi e pesanti, c’è un vecchio signore seduto. E’ Naguib Mahfouz. Mi sta aspettando. O almeno credo.
Questo è quello che scrissi dopo quell’incontro.

IL CAIRO DI MAHFOUZ

“Il mio amore e il mio attaccamento alla vecchia Cairo sono straordinari”, diceva qualche tempo fa Naguib Mahfuz, premio Nobel per la Letteratura, in un’intervista concessa a un quotidiano cairota. “Ci sono volte in cui mi scopro a corto di idee. Sai, può capitare a noi scrittori. Allora – proseguiva – esco e mi faccio una passeggiata nei luoghi dove ho vissuto da bambino. Ecco, quasi subito mi sento letteralmente assediato dalle immagini. E’ durante momenti come questi che ho concepito, prima ancora di trascriverle su carta, gran parte dei miei romanzi. E quando sento il bisogno di ancorare un episodio o un personaggio ad un luogo specifico, beh, questo posto non può che essere al-Gamaliya, il mio quartiere natale”.
E’ passato un po’ di tempo da allora ma oggi, a novantun anni suonati (è nato l’11 dicembre del 1911), lo scrittore non ha ancora cambiato opinione su quali siano state le principali fonti di ispirazione della sua scrittura. E, nonostante gli enormi mutamenti sociali sopravvenuti nel frattempo e lo stratificarsi di una serie di pesanti interventi di risanamento architettonico, neppure il rione è molto cambiato da quando il giovanissimo Naguib vi trascorreva l’infanzia: era e resta un chiassoso, caotico conglomerato di caffè, piazzette, strade, vicoli, botteghe, indovini, asini, bambini, moschee e minareti. Delle due grandi arterie che, quasi parallele, partendo dalla moschea di Hakim percorrevano longitudinalmente da nord a sud il Cairo medievale, Sharia Gamaliya è del resto quella che di più dell’altra (la Sharia al-Muizz li-Din Allah) ha subito il progressivo degrado e una certa emarginazione, acquisendo con i secoli quell’atmosfera spiccatamente popolare che tuttora ne rappresenta il tratto più distintivo. Ed oggi se ne sta in disparte, lontana dal cuore commerciale del quartiere, tra cumuli di calcinacci e facciate di palazzi antichi annerite dallo smog: “Eppure, ovunque posi lo guardo – ricorda Mahfuz ripercorrendo le sensazioni delle sue giornate giovanili – qui incroci gli eleganti fregi di un ingresso, l’ornato di una finestra, il profilo allungato di un minareto, oppure senti il canto saggio di qualche derviscio misterioso che scivola dentro il portone di una takiya. La gente del quartiere proviene da tutti i sentieri della vita: operai, artigiani, fabbricanti di amuleti, ciarlatani, nullafacenti, malandrini, impiegati, faccendieri, venditori di qualcosa”.
Punteggiata di spelonche cadenti e di sontuosi edifici, di case miserabili e di dimore da sultani, la città vecchia è il luogo in cui l’opera di Naguib Mahfuz trova il suo scenario naturale, in un abile gioco di specchi tenuto in bilico tra rimpianti e ricordi, reminiscenze letterarie e squarci di vita vissuta, realtà e invenzione. E’ qui che trova respiro non solo la celeberrima “Trilogia del Cairo” (ovvero “Fra i due palazzi”, “Il palazzo del desiderio” e “La via dello zucchero“), ma buona parte della produzione mahfouziana. Come una città nella città.

Ha!”.
Sembra ancora divertirsi un mondo, Mahfouz, a farsi raccontare dagli amici quello che succede nella capitale. Il grande vecchio della letteratura egiziana accoglie le notizie che gli vengono sillabate all’orecchio con un ampio cenno di assenso del capo e con un “Ha!” che echeggia ritmicamente nella stanza, restando sospeso tra il suono di una risata e quello di un improvviso colpo di tosse. E’ la metà di un pomeriggio qualsiasi. E, come tutti i giorni, anche oggi l’anziano scrittore, quasi del tutto cieco e sordo dopo l’attentato subito dagli estremisti islamici del 1994, prova a ricostruire con l’aiuto di un’immaginazione tutt’altro che appannata la verità del mondo circostante. Una realtà frammentaria e parziale, fatalmente incompleta. Ma che egli riesce in qualche modo a rendere compiuta, quasi che i fatti di cronaca appresi dalla voce altrui potessero essere le tessere di un grande mosaico, tenute insieme dal mastice dei ricordi e della fantasia. Beffardo contrappasso, a pensarci bene, per un autore che durante la sua lunga e prolifica carriera ha fatto dell’assemblaggio di luoghi, volti e situazioni uno dei fili conduttori del suo procedimento narrativo. Accade così – ed ecco il paradosso – che, alla luce dei racconti, nella sua mente l’immagine reale della moderna metropoli finisca per apparire come appariva nella finzione dei suoi libri: camuffata, composita, forse inesistente. Ma verosimile.
Dopo l’attentato, Mahfouz ha dovuto mutare le sue abitudini. O meglio: le ha adattate alle circostanze. Come una volta, continua a radunare quotidianamente intorno a sé, al caffè, un cenacolo di amici-discepoli dai quali si fa raccontare tutto ciò che accade. Solo che il caffè non è più l’Alì Baba Cafeteria, sulla centralissima Midan Tahrir. Per ragioni di sicurezza, il luogo cambia ogni giorno.
Noi lo incontriamo, dopo una serie di contatti riservati, nella stanza 212 di un anonimo hotel di stile occidentale di Heliopolis, cittadina oggi modernissima, ubicata tanto vicino alle porte della capitale egiziana da esserne ormai quasi un sobborgo. Siamo lontani anni luce dai luoghi e dalle atmosfere odorose della Cairo islamica. Ma che importa: a giudicare dal modo in cui Naguib Mahfuz socchiude gli occhi nello sforzo di ascoltare, siamo certi che davanti all’oblò della sua memoria il film dei vicoli, delle botteghe, le espressioni della gente di Gamaliya scorre ancora nitido. Così come, nella sua testa, continuano nitidamente ad echeggiare i suoni, il pianto dei bambini, il ragliare dei muli e i colpi di martello degli artigiani del rame che hanno costellato tanti momenti della sua esistenza.

Tuffarsi nella Cairo islamica alla ricerca delle suggestioni mahfouziane, del resto, è come entrare in un negozio di spezie cercando di riconoscere le essenze con un semplice colpo di olfatto. Perdere l’orientamento è quasi inevitabile. Sbarcati nella grande Midan Hussein, tra l’omonima moschea e quella ultramillenaria di Al-Azhar, tutte le strade sembrano condurre al Fishawi, lo storico caffè (o ciò che ne resta, visto che l’originale fu demolito nel 1969) dove turisti e avventori abituali si intrecciano fino a notte fonda tra minuscoli tavolini e tazze fumanti di the alla menta. Negli anni trascorsi da impiegato ministeriale, Mahfouz passava ore intere a fumare il narghilè all’ombra degli specchi affissi alle pareti del locale (“Ya salam!”, ricorda lui: “Che tempi!”), immerso tra le chiacchiere e le meditazioni, proprio come certi personaggi che ancora si aggirano nel vicolo che funge da sala all’aperto.
Lì per lì tutto sembra già chiaro e la topografia del quartiere pare squadernartisi davanti come un libro aperto: le porte a nord, quella a sud, il suq, la moschea di Hussein. Ma appena girato l’angolo, basta sbagliare un incrocio per trovarsi di nuovo ingoiati nell’oscurità di calli deserte e misteriose, sfiorati da biciclette spuntate dal niente, osservati da occhi enigmatici, apostrofati dai passanti non si sa se per gentilezza o risentimento. Proprio come fanno i venditori del vicino mercatino di Khan el Khalili quando ti rifiuti di acquistare le loro chincaglierie. Ti imbatti in qualche budello defilato e stretto, vaghi a lungo, ti perdi, ripercorri mille volte i passi già compiuti e solo per caso ti accorgi che proprio quello è il Vicolo del mortaio, uno dei luoghi mahfouziani per eccellenza: una stradina angusta e dissestata, con un modesto caffè semideserto e un paio di botteghe, che finisce nel nulla, diramandosi in una serie senza fine di terrazzi, pianerottoli, piccoli cortili di case che sembrano nascere e morire senza criterio. Non c’è niente dell’arcana solennità che avresti immaginato aleggiare sul posto che dà il nome ad uno dei più celebri romanzi del romanziere. A sinistra si apre una scala buia e malconcia. Sali. Al primo piano, sopra un cortile invaso di bancarelle, c’è un ballatoio. E sul ballatoio si affaccia l’antro di un artigiano del rame che sembra appena uscito da una raccolta di dagherrotipi. Ti aspetti che non abbia mai visto un occidentale, ma prima che tu abbia il tempo di pensarlo lui, in un inglese più che accettabile, ti offre sorridendo una pila di souvenir, specificando che accetta anche pagamenti in dollari. Touchè. Fuori dai crocevia asfissianti del mercatino e lontano dalla bolgia dei questuanti, ai turisti potrebbe perfino sembrare di passare tanto inosservati da apparire trasparenti. Ma è tutta un’illusione. Qua e là si aprono vie strette come corridoi, presto inghiottite da archi e coperture sotto le quali i commercianti paiono languire in una perenne, oziosa attesa. Invece ti guardano. E chissà a cosa pensano.
Usciti dalle porte settentrionali di Bab al-Futuh e di Bab al-Nasr, di fronte alle millenarie mura fatimidi che al giovane Naguib, oltre le regge dei sultani, davano forse l’impressione di voler proteggere anche la confusionaria umanità del suo quartiere, si estendeva uno dei grandi cimiteri-dormitorio cairoti, dove i vivi coabitano con i morti e dove, oggi, un progetto di “riqualificazione urbanistica” (così la chiamano) potrebbe spazzare via le tombe secolari per far posto ad anonimi giardinetti e parcheggi. Dura pensare che proprio lì, tra i sepolcri dei defunti e le abitazioni dei loro custodi, Mahfouz abbia immaginato le fughe di ladri disperati, gli appuntamenti segreti dei cospiratori, il fallimento di tanti amori impossibili.
Calato, attraverso la narrazione mahfouziana, nel contesto topografico di una metropoli in mostruosa espansione come il Cairo di oggi, del resto, un quartiere introflesso e quasi claustrofobico come quello islamico finisce per costituire una presenza tanto ingombrante quanto sfuggente, capace di dilatarsi e di restringersi, insinuandosi tra le maglie della città, allungandosi e assottigliandosi a piacimento, quasi a rappresentare il tessuto connettivo tra i mille distretti cairoti. E’ in una casetta sordida posta in un punto imprecisato tra al-Gamaliya e la collina di Muquattam, ad esempio, che cerca un disperato e inutile rifugio Said Mahran, l’omicida protagonista de Il ladro e i cani. E’ nei locali malfamati della zona che esercita Nur, la prostituta-entraineuse, vestale di un mondo in degrado che riesce a sopravvivere solo restando a cavalcioni tra legalità e crimine. Passo dopo passo, situazione dopo situazione, sembra di poter riconoscere molti di questi luoghi nei vicoli che si diramano verso est da Sharia al-Muizz li-Din Allah. Si trovava qui, al numero 8 di piazza Bayt al-Quadi, anche la casa natale di Mahfouz, demolita chissà quando dalle ruspe o forse rovinata, come tante altre, in una nuvola di polvere e di macerie su cui ora giocano animali e bambini, transitano irriverenti carretti, sbuffano vecchi camion carichi di non si sa che cosa.

Osservata dall’alto del minareto della moschea di Hasan, nel tratto della Sharia Muizz detto Bein al-Quasrein (ovvero “Tra i palazzi”, in riferimento alle antiche regge fatimidi che un tempo vi sorgevano, proprio come il titolo dell’omonimo romanzo mahfouziano), la città vecchia sembra uno stupefacente, enorme, vibrante accumulo di detriti e di cantieri ove la gente ha deciso di risolvere il problema dei rifiuti nascondendo avanzi e frattaglie sul tetto di casa. Anche da lassù, oppressi da un cielo che assomiglia alla cappa del destino, si fa fatica a distinguere il reticolo delle strade e dei vicoli dell’urbe medievale, incuneati tra i palazzi come le gallerie di un formicaio. E’ questo un luogo in cui lo splendore umbratile delle moschee e l’atmosfera rarefatta delle madrase, le scuole coraniche, restano sommersi sotto la coltre traboccante dell’umanità e del commercio, appannati dallo smog, oscurati dai ponteggi dei lavori in corso che, nei progetti dell’amministrazione cittadina, dovrebbero riportare a nuovo le centinaia di edifici storici che punteggiano il quartiere. A momenti verrebbe voglia di sperare che i lavori non finissero mai, per non mettere a repentaglio la magia che lo pervade. Ma la voglia passa visitando il Beit as-Suhaimi, sul vicolo di Darb al-Asfar, considerato uno dei più bei palazzi ottomani del Cairo: una sorta di museo-abitazione arredato con mobili d’epoca, abbellito con finestre traforate e con un meraviglioso cortile interno che ben rende l’idea dello sfarzo delle antiche abitazioni nobiliari seicentesche.
Tutt’intorno, quasi indifferenti, le strade ribollono delle solite attività quotidiane. Su di esso, del resto, la modernità sembra essere scesa rapida ed indolore come un piovasco estivo, capace al massimo di lasciare qua e là incrostazioni che, tra la gente, sopravvivono solo in certa merce occidentale in vendita sulle bancarelle, nelle macchinette per le carte di credito dei gioiellieri e in quell’uso smisurato della plastica che anche qui, come ovunque, si espande a macchia d’olio, senza riuscire però ad intaccare fino in fondo le abitudini. La latta, il ferro, il rame e il legno la fanno ancora da padroni, contendendosi di vicolo in vicolo case e fondachi. Di latta e ferro sono le bilance accatastate nei negozietti all’angolo di Bayt al-Qadi. Di latta, di ferro e di legno sono le masserizie stipate negli empori, mentre un intero tratto del suq, il suq al-Nahhsin, è ancora occupato dalle botteghe degli artigiani del rame. Riconoscere l’impronta delle atmosfere evocate da Mahfouz qui è facile. Molto più difficile, e forse inutile, è identificare i luoghi con i quali egli si è divertito a prendersi gioco dei lettori troppo zelanti, invertendo punti di riferimento e prospettive, spostando monumenti e moschee, creando ad arte palazzi e botteghe dove non ci sono mai stati. Ma è un peccato veniale: “Certe circostanze – ha scritto una volta rievocando i momenti della sua infanzia – scorrono costantemente nella mia memoria e nella mia anima: le ombre, le voci dei passanti che si allontanano e lo strepitare di quelli che si avvicinano. Ognuna di queste cose ha un suo posto nel tempo e nello spazio. Ognuna di queste persone ha un luogo da cui prende origine e che adotta come proprio rifugio, ove tornare durante i tempi grami”.
Più a sud, dalle parti di Bab Zuweila, dove la Sharia al-Muizz si interseca con Darb al-Ahmar, la leggendaria Strada Rossa, un fabbricante di fez armeggia con le sue pesanti forme di ottone, in attesa di clienti, cercando di sagomare un copricapo. Intorno a lui fiorisce l’atmosfera animata del suq, tra la biancheria sbattuta dal vento, i pesanti tendaggi appesi di fronte ai negozi, i mazzi delle cipolle in bella vista distesi sui banchi dei commercianti di verdura. E’ questo lo scenario in cui si snoda La via dello Zucchero, la novella conclusiva della Trilogia del Cairo. Naguib Mahfouz è lo scrittore dei piccoli spazi, delle storie intime, dei drammi interiori, delle saghe familiari. In “Tra i palazzi” c’è chi si è preso la briga di calcolare che, nell’arco dei settantuno capitoli del racconto, il protagonista non si allontana dai luoghi-fulcro della vicenda più di tre chilometri. Una sorta di walk of life, la passeggiata della vita.
Ma è un dettaglio così importante?”.