Gli stucchevoli balletti hanno raggiunto soglie insopportabili. Di qua quelli del marketing a fare il loro ingrato lavoro. Di là i colleghi che simulano la vis grata puellae. Nel mezzo, la decadenza di una professione in cui il benefit ha preso il posto del reddito.

Sulla carta è tutto molto semplice.
Da una parte c’è chi fa public relations e che, come dice la parola, per lavoro si occupa di tenere rapporti e di intessere relazioni con il mondo dell’informazione, cioè con i giornalisti.
Dall’altra c’è la controparte, ovvero i giornalisti appunto.
Ruoli ovviamente diversi, anzi opposti. In cui i secondi fanno la parte dei corteggiati e i primi dei corteggiatori. E dove, in teoria, non solo non esiste alcuna garanzia, ma in genere non dovrebbe accadere che il rapporto “quagli” oltre certi limiti: tutto dovrebbe giocarsi in equilibrio su un filo del quale l’autonomia del giornalista è il cavo di sicurezza del sistema.
Ovvio che un pizzico di ipocrisia, di interessi contrapposti e di reciproci opportunismi facciano parte del gioco. Ma tutti lo sanno e tutti lo accettano, quindi va bene così.
Da qui la mia convinzione che un rapporto corretto tra chi fa informazione e chi fa comunicazione possa esistere e debba basarsi sulla chiarezza e la condivisa consapevolezza dei limiti oltre i quali nessuna delle due parti deve spingersi.
Entro questi paletti, credo sia possibile anche costruire rapporti di sincera amicizia e stima, cementati magari dalla frequente riprova del reciproco rispetto professionale.
La partita, sempre sulla carta, si gioca dunque in questo vezzoso scambio di amorosi sensi. Un pr, suadente per default, offre a un giornalista un po’ scontroso (sempre per default), che a volte accetta (ma sempre con beneficio di inventario) e a volte no, notizie e opportunità di conoscenza o di approfondimento.
I problemi nascono quando il rapporto si capovolge. Quando cioè è il giornalista che ha bisogno del pr, è il giornalista che desidera essere invitato, è il giornalista che “chiede”.
Trovandosi in condizioni di chiedere (e non stiamo qui a chiederci il perché, sarebbe un discorso lungo), egli si trova così anche in condizioni di dover concedere ciò che, quasi sempre, non potrebbe: accondiscendenza.
E qui il meccanismo si inceppa.
Il fatto è che ciò accade sempre più di frequente. Anzi, è pressochè diventato una regola: una pletora di giornalisti (forse la questione sta proprio in questo?), praticamente disinteressati alla sostanza, attende fuori dalla porta, anelante come un mendicante, che dal magnanimo padrone di casa giunga l’invito a unirsi alla mensa. E sono disposti praticamente a tutto, o quasi, pur di farsi ammettere.
E’ questo il segno più evidente della deprofessionalizzazione del giornalismo. Un settore in cui la centralità del reddito, cioè il motivo-base per il quale qualcuno svolge un certo lavoro, è stato progressivamente sostituito dal benefit: non mi occupo di un argomento o non vado all’evento perché qualcuno mi paga per scriverne, ma per godere, direttamente o indirettamente, dei benefici correlati, della visibilità, dell’ospitalità, degli omaggi.
Una sindrome in cui, giustamente e fatalmente, la controparte sguazza. E ha poi facile gioco nell’evocare quando si accusa il marketing di troppa invadenza nell’informazione.
Tutto ciò mi è venuto in mente dopo aver assistito al pietoso balletto in cui alcuni colleghi che vorrebbero darsi un tono hanno inscenato una pantomima da commedia all’italiana, nella quale, da autoinvitati, volevano però passare quelli che si fanno desiderare, atteggiandosi a neghittosi quanto basta da indurre le suppliche dell’organizzatore ma mostrandosi anche accondiscendenti abbastanza da non farlo incazzare al punto tale da ritirare l’invito. E nella quale l’organizzatore ha a sua volta usato bastone e carota per riuscire nell’impossibile impresa di apparire al tempo stesso seccato ma comprensivo, generoso ma intransigente.
Lo ammetto: stavo più dalla parte di quest’ultimo, che non si vergognava a fare il proprio ingrato mestiere, che da quella degli ipocriti tromboni intenti a fingere di fare il loro.