Si dice che i viaggi più belli siano quelli durante i quali ti chiedi per almeno tre volte perchè mai sei partito. Le Dahlak sono 120 isole. E grazie alla lettura, mi è venuta voglia di andarci. Scomode e lontane, ideali per (ri)farsi la triplice domanda.

Sto per parlare di un libro che mi ha fatto tornare la voglia di viaggiare.
Impresa non facile, invero.
Lo definisco un libro perché non mi viene un’espressione migliore. Ciò che ho in mano non è una guida, non è una monografia, non è un volume fotografico, non è un manuale naturalistico, non è un saggio, non è un romanzo, non è un reportage. Ma è, al tempo stesso, nessuna e tutte queste cose insieme. Anche nel formato: non tascabile, ma agile quanto basta da essere tenuto sul comodino o sul bracciolo della poltrona.
Si intitola “Isole Dahlak, un arcipelago del Mar Rosso eritreo” (Erga Edizioni, 240 pagine, 18 euro) e l’hanno scritto tre amici, tutti ex insegnanti del liceo scientifico “Marconi” di Asmara, in Eritrea, dove hanno vissuto molti anni: Giuseppe De Marchi, Giampaolo Montesanto e Guido Traverso. Gente, è evidente, che il terreno lo conosce come le sue tasche e che, si avverte anche questo, lo sa raccontare con un’ampiezza di sfaccettature direttamente proporzionale alla pacatezza dei toni.
Non conoscevo, se non per averle viste sugli atlanti, le Dahlak. Ne sapevo poco o nulla, salvo il fatto che si trattava di un arcipelato remoto e non facile da raggiungere. Come tale meta perfetta per il tipo di viaggi e di servizi che, un tempo io e qualcun altro facevamo per chi era interessato a sapere qualcosa sulle zone meno conosciute del pianeta.
Nella mia fantasia, queste isole le immaginavo impervie, torride, inospitali.
Scopro che torride lo sono davvero, ma impervie non troppo, aride abbastanza e inospitali per niente. Scopro che sono tantissime, 120 addirittura, e che costituiscono uno degli ultimi paradisi tropicali africani. Espressione, per una volta, non usata a sproposito. Scopro che hanno una storia lunga e affascinante, iniziata con gli Egizi e proseguita con i Tolomei, i Romani, i Persiani, gli Arabi, i Portoghesi, gli Italiani. Scopro che furono sede di un sultanato medievale e che ospitano parecchi giacimenti archeologici, incluso quello che sembra un centro di culto megalitico.
Poi c’è la gente, ci sono gli animali, ci sono le immersioni, i cammelli bradi, i relitti della navi della Regia Marina (e anche qualche cannone) autoaffondatesi durante l’ultima guerra.
Lo scopro sfogliando, pagina dopo pagina, un volume che è corredato di tante belle foto, di approfondimenti, di un testo piacevole ricco di richiami scientifici, mai pedissequo o verboso, accurato e documentato su clima, flora, fauna, storia, geologia, mare e fondali, popolazione. E con molte, utili informazioni per l’improbabile ma non impossibile viaggiatore che lì si voglia avventurare: un luogo praticamente senza hotel e strutture ricettive, raggiungibile solo con le barche private utilizzate anche dalla gente del posto, dove bisogna arrivare attrezzati per ogni necessità.
Soprattutto, mi viene da aggiungere, quella di far fronte a un ambiente e a un contesto lontano dal comune. In ogni senso. Di quelli che, quando ci sei, ti domandi perchè.
Ecco, nella loro “ricerca” – come alla fine, azzeccatamente, la definiscono – i tre amici riescono bene a restituire proprio questo: un’idea non approssimativa e mai banale di luoghi non banali.
Quanto basta, appunto, a far venire voglia di rispolverare i vecchi attrezzi del mestiere e di rimettersi in moto.