Forse viaggiare era diventato troppo facile e la gente non si accontentava più dei racconti di luoghi visti da altri. Ora che il pianeta è quasi blindato, ma i reporter disposti a visitarlo ci sono ancora, manca chi pubblica i loro reportage. E chi li legge.

 

Una volta viaggiare era caro e pure pericoloso. O forse lo è sempre stato, dipendeva solo dal grado di consapevolezza del proprio stato di pericolo da parte di chi viaggiava. Oggi si direbbe “pericolo percepito“. Poi, quasi di colpo, tutto era diventato fin troppo facile, veloce, sicuro, a buon mercato. Troppo vicino, poco attraente. Solo apparenza? In parte sì, ma la “percezione” era appunto che ogni luogo fosse ormai liberamente accessibile. E tanto bastava.
Da qualche anno, invece, viaggiare è spesso ridiventato impossibile in gran parte del mondo: guerre, fanatismi religiosi, crisi economiche, tensioni etniche, epidemie, muri, terrorismo, paura diffusa hanno frammentato geograficamente il fenomeno economicamente più globale che ci sia: il turismo. Tutto il turismo, nell’accezione più vasta, anche se questo farà storcere il naso ai puristi: dal raid estremo alla ricerca di se stessi alla vacanza-panettone a Sharm el Sheik.
Un terremoto che ha fatto morti, feriti e qualche orfano.
Gli orfani siamo noi, quella nicchia di giornalisti che per anni hanno girato il mondo per raccontare cosa succedeva in luoghi dove (o nel modo in cui) uno non sarebbe andato mai, o dove uno sognava di andare o dove magari progettava di fare una visita.
Era un mondo visto con gli occhi degli altri, cioè i nostri. Gli occhi di chi aveva l’esperienza, il fiuto, la sensibilità per vedere e poi descrivere ciò che forse non tutti avrebbero di primo acchito potuto vedere. Non cose estreme per forza. Anzi a volte perfino banali. Ma visitate e descritte con sguardo profondo, professionale, disincantato e per questo coinvolgente.
Ora che le frontiere fisiche e psicologiche sono ricomparse, che i rischi sono tornati percepibili e che la comprensibile paura di viaggiare verso certe destinazioni è riaffiorata, lo spazio per il viaggio “raccontato” anzichè vissuto personalmente dovrebbe essersi riaperto. Restano sulla breccia fior di professionisti pronti a (e capaci di) esplorare, rischiare, avventurarsi in luoghi e situazioni non comuni.
Eppure l’editoria di viaggio e la stampa di settore continuano a languire, sia su carta che in rete.
Non è un problema di mezzo, ma di mercato: pare (e i sondaggi lo confermano) che chi sarebbe disposto a spendere migliaia di euro per un viaggio in qualche angolo poco noto del mondo non sia disposto a spenderne qualche spicciolo per visitarlo con gli occhi e la mente di un altro. E siccome questo consumatore non c’è, non c’è nemmeno un’industria editoriale che gli proponga questo prodotto e che sia in grado di mantenere chi lo produce. Manca in definitiva un mercato serio dell’editoria di viaggio e di conoscenza.
Si ha un bel dire che internet ha ucciso la fantasia e che la gratuità del digitale ha ucciso il fascino della carta e della fotografia.
Ma la legge della domanda e dell’offerta non lascia scampo.
Mi chiedo, però: perchè questo succede? Come è possibile che nell’era dello storytelling non ci sia posto – posto economico, intendo, quindi strutturato alla bisogna, serio, affidabile e non occasionale – per il modo più bello di raccontare storie vere, cioè quello di andare a scovarle, raccoglierle, scriverle?
Qualcuno mi risponderà che ci sono i blog.
Sì, ma si tratta di altro. E poi non so chi li leggerebbe se anche i blog diventassero a pagamento e parte di un’industria che, anzichè marketing, facesse informazione.