Negli ultimi giorni, dopo l’articolo-geremiade di Francesca Borri, sul blog collettivo Valigia Blu e su FB si è sviluppato un gran dibattito sulla professione e il suo senso economico. Ma abbagli e massimalismi imperversano.
Prima Francesca Borri sul suo stato di freelance di guerra (qui) a 70 euro a pezzo, variamente commentato (anche dal sottoscritto). Poi ieri, su “Valigia blu” (qui) quello dell'”editor” (alias direttore) dell’AGL/Espresso Andrea Iannuzzi, con i suoi “consigli” ai giornalisti in cerca di reddito. Oggi, sul medesimo blog, un altro pezzo dell’Agenzia Effecinque su “Sempre meglio che lavorare (gratis)” (qui) a proposito della necessità del giornalista di oggi di riorganizzarsi e “reinventarsi” imprenditore (più o meno di se stesso).
Segue una sconcertante miscela di autopromozioni, svarioni concettuali, iocelhopiulunghismo, iosonopiufreelancedite, vittimismo, cialtroneria, sprovvedutezza. Il tutto reso più acuto da una valanga di commenti ai commenti, dall’inopportuno all’imbecille.
Viene da chiedersi che mestiere faccia davvero certa gente che, mettendo in rete i suoi pensieri (eufemismo), finge di fare il giornalista.
Allora vorrei, un po’ bruscamente, capovolgere il discorso e il ricorrente interrogativo su “cosa siamo?” (giornalisti, imprenditori, geni incompresi, etc) per domandare invece: cosa cerchiamo dal nostro lavoro?
La risposta, con buona pace degli idealisti e dei moralisti veri o presunti, è una sola: cerchiamo un reddito.
E’ il reddito l’unica cosa che giustifica il lavoro svolto.
Altrimenti è volontariato (per un editore: strana forma di volontariato, quella svolta a favore di un’impresa) oppure un hobby e pure costoso, perchè necessita dell’esistenza di altri che lavorino per pagare le bollette al posto nostro. E’ ovvio allora che, nell’ambito delle diverse capacità professionali e delle legittime aspirazioni individuali di ognuno, la ricerca del reddito ci guidi nei modi di esercitare l’attività che svolgiamo. Normale che sia così. E normale che quest’attività prenda nomi diversi a seconda di come e a che titolo è svolta.
Il giornalista, ad esempio, esercita una professione. Per la quale, non a caso, in Italia esiste un albo. Che piaccia o no, senza iscrizione all’albo non puoi chiamarti giornalista, nè quello che fai può essere chiamato giornalistico.
Puoi svolgere questa attività da autonomo o da dipendente, ma comunque da appartenente a un ordine. Quindi non in forma imprenditoriale. Se lo fai (e lo puoi fare benissimo) mantieni la qualifica formale di giornalista ma fai l’imprenditore, non più il giornalista. Cambi sponda, insomma.
Niente di male, intendiamoci. Basta che sia chiaro, però.
Il giornalista pensa al reddito, l’imprenditore al profitto. Due cose affini, ma non uguali.
Il primo ha anche una deontologia professionale, il secondo basta che rispetti le leggi vigenti. Il primo produce informazione, il secondo la vende.
Messi questi paletti e chiaritone il senso, sono d’accordo con le premesse: lavorare pagati è sempre meglio che scrivere gratis.
Eppure può accadere che nessuna di queste due bellissime cose sia giornalismo.