Mentre altrove, ad esempio in Puglia, il ritorno dell’agricoltore in campagna è inseguito come un obbiettivo concreto per il consolidamento della ritrovata centralità rurale, in Toscana si fanno tante parole. Ma le opportunità di vita rustica rimangono, nel concreto, off limits.

Partecipavo oggi, nel bel cortile del palazzo comunale di Corato, in Puglia, a una degustazione di vini ricavati dall’uva Nero di Troia e organizzata dal Movimento per il Turismo del Vino, la Regione, la Strada dei Vini di Castel del Monte e dal GAL con lo stesso nome.
Verso la fine dell’incontro si è materializzato l’assessore regionale all’agricoltura (nonché coordinatore di tutti gli assessori agricoli italiani), Dario Stefàno. E quando ha preso la parola ho temuto il peggio.
Invece Stefàno si è astenuto dalle banalità e ha invitato a rivolgergli qualche domanda. E visto che si parlava di vino come strumento economico di rivitalizzazione del territorio e di emblema delle sue eccellenze, gli ho chiesto se l’accento del discorso non andasse posto, oltre che sulla qualità dei prodotti agroalimentari pugliesi, fattore indubbiamente importantissimo, ma non unico, anche sul più ampio ruolo della ruralità. Ovvero della sua funzione, nella rinascita agricola, anche in chiave socioculturale.
L’assessore avrebbe potuto agevolmente porre mano al politichese e aggirare la domanda con la solita aria fritta.
Viceversa, mi ha risposto con un argomento interessante, che vi riporto.
Non c’è dubbio – ha detto, più o meno – che vino, olio e gli altri prodotti tradizionali della terra svolgano e abbiano svolto un ruolo decisivo nel recente mutamento della nostra regione. Una regione che ha smesso di vergognarsi delle sue radici rurali e che, anzi, di questa risorsa ha fatto un mezzo di riscatto grazie al quale la campagna, intesa proprio nel senso di espace rural, è tornata al centro della scena, conquistando l’interesse degli imprenditori e anche della politica. Ma la sfida non è finita qui e non riguarda solo l’aspetto dimensionale, la crescita.
Tempo addietro
– ha continuato Stefàno – un anziano agricoltore mi ha chiesto di riceverlo in privato. Voleva ringraziarmi perché, grazie alle politiche regionali di incentivazione all’agricoltura, lo avevo aiutato a convincere i suoi figli a riprendere in mano l’azienda agricola di famiglia alla quale, fino a pochi anni prima, non mostravano il minimo interesse. Ma aggiunse che dovevo aiutarlo a ottenere una cosa ancora: indurli ad abbandonare la città e a trasferirsi in azienda, cioè a risiedere in campagna, a farne la loro casa, a uscire dalla mentalità urbana e a rientrare in quella rurale.
Ecco
– ha concluso l’assessore – il prossimo passo da compiere è proprio questo: fare della ruralità non solo una leva di marketing e un valore culturale da preservare, ma un fattore demografico, uno strumento per il ripopolamento della campagna attraverso gli unici soggetti legittimati ad abitarla, gli agricoltori. E ciò si potrà ottenere solo dando loro modo di avere, pur vivendo lontano dalle città, almeno una parte dei servizi che sono normali in ambiente urbano, ma impensabili in quello rurale: ad esempio la scuola, la palestra, internet“.
Allora ho pensato alla Toscana, dove per tradizione la campagna non è mai stata disabitata se non negli ultimi cinquant’anni e che, proprio per questo, ha quel bel paesaggio che si ritrova. Ma dove, per ripopolarla, è stato necessario importare imprenditori dalla Sicilia e dalla Sardegna. Imprenditori, appunto, e non abitanti. Perché in termini di occupazione dello spazio, di antropizzazione insomma, dopo l’esodo mezzadrile la campagna toscana è rimasta vuota. Un opificio a cielo aperto, che produce senza dubbio, talvolta, prodotti e ricchezza, ma che dopo le sei del pomeriggio si svuota e torna deserta, come i centri storici cittadini quando gli uffici chiudono.
Non è una bella sensazione pensare che, dove gli altri parlano sul serio, dalle tue parti, ben che vada, ti ridono in faccia.