Oggi comincia l’IJF 2014. Solito programma fitto, ma tira (per il festival e per la professione) una brutta aria. Spulciando il programma ho trovato però qualcosa che mi ha fatto rammentare il filo sottile sul quale il mestiere reale passeggia.

Non sono molte le cose che mi legano al festival del Giornalismo di Perugia, che apre i battenti oggi.
In particolare mi ritrovo poco in quell‘idea molto politicamente corretta, militante e vagamente autoreferenziale della professione che spesso vi trova accogliente ospitalità. L’atteggiamento insomma di chi dà per scontato di stare sempre e comunque dalla parte “giusta” e di chi, in ogni caso, sa dove la parte giusta sta.
Tanto premesso, sarebbe sciocco negare sia il successo della manifestazione sia il fatto che, tra tante chiacchiere e passerelle, di solito ci sono anche parecchi appuntamenti interessanti.
Sarò sincero, però: sarà l’effetto della disillusione generale che aleggia sulla professione, sarà che certi argomenti, anche i più bollenti, prima o poi passano di moda, ma mi pare che quest’anno il tema centrale non sarà il cavallo di battaglia delle ultime stagioni, cioè il precariato giornalistico, i diritti negati, i sogni infranti e tutto il codazzo un po’ stucchevolmente giovanilista che, per alcune edizioni, l’ha fatta da padrone.
Sia chiaro, non è che quei nodi non siano seri, nè che siano risolti. Anzi.
Se ne è forse solo parlato troppo, spesso a sproposito. E il troppo, come noto, stroppia.
Scorrendo il programma (qui), mi è così caduto l’occhio su un appuntamento un po’ defilato (è l’ultimo giorno, domenica, a metà mattinata): la conferenza-intervista del travel writer Lee Marshall a Tony Wheeler, il leggendario fondatore delle altrettanto leggendarie guide (oggi in pessime acque economiche) Lonely Planet.
Non è però solo una questione di nostalgia da vecchio giornalista-viaggiatore rimasto orfano dopo il seppuku dell’editoria di settore. C’è qualcosa di più. Anche se, credo, alla fine, tutto si ridurrà alla presentazione latamente promozionale del nuovo libro di Wheeler, “Fuori rotta – Otto viaggi oltre la linea d’ombra“.
E’ stato però il breve testo di introduzione alla conferenza che mi ha colpito: “Io adoro viaggiare comodamente, visitare paesi ospitali, soggiornare in alberghi accoglienti e gustare cibi deliziosi. Eppure i luoghi che ti lasciano a bocca aperta, quelli che ti tagliano il fiato, sono spesso i luoghi meno confortevoli, amichevoli e accoglienti. Sono i posti in cui è importante gettare spesso uno sguardo dietro le spalle, quelli che ti scopri a sfiorare continuamente la tasca, per controllare che il passaporto sia ancora al sicuro. Sono i posti che ti portano oltre la linea d’ombra, quelli in cui ti senti a volte il tuo cuore accelerare il battito e cominci a preoccuparti un po’ per la tua incolumità“.
E’ una sensazione che conosco benissimo. Ma proprio bene.
Provata centinaia di volte quando, spinto dalla curiosità, dal mestiere e dall’imperativo di “portare a casa il servizio“, hai più o meno volontariamente superato l’impalpabile soglia della prudenza, della ragionevolezza. E, senza per questo sentirti già temerario, hai avuto l’immediata percezione di essere rimasto senza paracadute: se cado, mi faccio male.
Trovo che sia uno stato d’animo profondamente giornalistico. Un rito di passaggio destinato però a ripetersi ogni volta. E legato non solo al trovarsi in luoghi lontani, sperduti, pericolosi, come ovviamente accade a chi, come mi è accaduto per anni, fa reportage in giro per il mondo, ma anche al normale mestiere di cronista, a certe atmosfere non geograficamente o topograficamente individuabili, a certe situazioni, a certi incontri, a certe tensioni, a certi sguardi che cogli negli occhi del tuo interlocutore o intorno a te.
Credo che nessuno possa dire di aver realmente fatto il giornalista se almeno qualche volta in carriera non si è trovato immerso in quell’ansia tanto sottile che ancora non è divenuta ansia vera e propria, ma un brivido, una piccola vertigine. Come guardare nel baratro con la coda dell’occhio, senza vedere l’abisso ma percependo la sua presenza molto vicina.
Mi piacerebbe molto se, al Festival del Giornalismo di Perugia di quest’anno, tutto ciò divenisse l’auspicio programmatico di una professione meno parlata e più praticata, meno mistica e più fisica.
Lo so: adesso qualcuno mi obietterà che il giornalismo non si pratica più, perchè nessuno ci riesce, tutti aspirano e pochi accedono.
Vero, forse.
Ma allora, se siamo a questo punto, vale la pena di farci un festival?