A 13 anni dalla chiusura, stanno demolendo ciò che resta della discoteca-simbolo della riviera. Ci andai (per lavoro) nei giorni della mucillagine, luglio 1989. Altri tempi (e anche altro spirito del giornalismo).
Non sono mai stato un discotecaro ed anzi, tanto per chiarire, ho un discreto curriculum giovanile di sabotatore di feste da ballo.
Mai andato in disco in vita mia, insomma.
Tranne una volta. Per lavoro. Al “Paradiso” di Rimini.
Anno 1989, quello della mucillagine che a metà luglio invase il mare e di colpo fu capace di svuotare spiagge, alberghi e discoteche. Compresa appunto “Il Paradiso”, la più famosa di tutte, quella che proprio in questi giorni, dopo 13 anni di chiusura e di degrado (vedi foto, che ho ripreso dal Corriere della Sera on line), è in corso di demolizione.
Con la sua scomparsa, come si dice, si chiude un’epoca.
Quando ci andai io erano davvero altri tempi e un altro giornalismo, in tutti i sensi. La mucillagine non si era mai vista e si faticò a capirne le cause, oltre a spiegare alla gente il significato della parola. Non c’erano i social e nemmeno internet, tutto viaggiava sugli allarmati e allarmanti servizi dei TG che riportavamo una situazione catastrofica di turisti in fuga, acque impraticabili, hotel in serrata ed economia in caduta libera.
Allora nell’informazione le vie di mezzo non esistevano e quindi non avevi alternative: le cose, per raccontarle, o le copiavi o dovevi vederle. Ma non bastava. Occorreva che intuito, acume, curiosità, sensibilità verso le notizie e le loro spigolature le avesse anche il tuo committente. Circostanza abbastanza ovvia e diciamo pure indispensabile se lavoravi per un’agenzia o un quotidiano, molto meno per un periodico.
Quando squillò il telefono e mi chiesero di partire subito per Rimini non era infatti il giornale per il quale lavoravo come cronista, che aveva già coperto gli eventi coi suoi corrispondenti, ma il direttore di un mensile di viaggi: “Vai, indaga e racconta dal punto di vista di un turista che, nonostante tutto, è rimasto lì. Qual è lo scenario? Quali le sensazioni?“. Seguono breve trattativa sui congrui compensi (allora il nostro era un lavoro pagato) e un voucher per il Grand Hotel.
Salto sulla mia utilitaria, faccio il Passo del Muraglione e arrivo a Rimini nel primo pomeriggio. Era il 29 luglio, mi pare.
Atmosfera surreale, come previsto. Parlo con un po’ di gente del posto, bagnini, negozianti. Li trovo più smarriti e a tratti increduli che disperati.
Spiagge deserte, strade deserte. Tutto deserto. Hall dell’albergo deserta e le stanze pure. A quanto pare ero l’unico ospite o quasi. La concierge era tutta per me. Chiedo, chiacchiero, domando. Il gentilissimo direttore mi procura un pass per alcune delle principali discoteche (“quelle aperte“, precisa). Ed una era Il Paradiso.
Ceno da solo in un clima, temperatura a parte, da mare d’inverno. Risalgo in camera, mi cambio, per far passare il tempo accendo un po’ la tv, che parla giust’appunto della mucillagine di Rimini e della catastrofe turistica che stavo toccando con mano.
Una mezz’ora prima della mezzanotte esco, destinazione Paradiso.
Arrivo e qui le citazioni spiritose si potrebbero sprecare: “Il Paradiso può attendere“, “Non ci sono santi in Paradiso, ma soprattutto peccatori“, eccetera.
Dell’ambiente non ricordo molto, se non il kitsch discotecaro dell’epoca: vetrate, pedane, forse palmizi, piste su vari livelli. Il tutto in toni verde-oro. Avventori tre in tutto, compreso il sottoscritto e una signorina in evidente ricerca di compagnia mercenaria. Il terzo pareva un marziano, faccia stranita e abbastanza inquietante. Lo staff, preavvisato del mio arrivo, fu gentilissimo: offerta di bevute a gogo, sconfortate confidenze, tentativi di minimizzazione alternati a cahiers de doleance.
All’una e qualcosa, rimasto solo, me ne vado.
Il portiere dell’albergo mi saluta e mi sorride mesto. La mattina dopo faccio un altro giro. Stesso smarrimento diffuso, stesso deserto di ordinati ombrelloni e sabbia pettinata per nessuno.
Riparto.
Ho ripensato spesso a quella lontana toccata e fuga riminese, con simpatia mista a qualche rimpianto. All’ansia di arrivare per vedere coi propri occhi e al senso di privilegio provato nel sapere che qualcuno ti aveva mandato lì fidandosi della tua capacità di osservazione, di percezione dei dettagli, di ricerca delle notizie, in un mestiere che nella teoria è rimasto lo stesso ma che, nella pratica, è ormai condizionato da un ambiente in cui c’è posto anche per le mezze verità e il sentito dire amplificato dal passaparola digitale.
O forse è solo che eravamo più giovani.