Lsdi anticipa in rete l’aggiornamento (con i dati 2011) del Rapporto sulla professione giornalistica in Italia, che sarà presentato a Roma il 30 novembre. Il segnale è chiaro: il processo di operaizzazione del lavoro giornalistico è quasi completato. In pratica sono nate le tute blu dell’informazione. Ora si apre quello dei “vupubblicà“.

Forse dovrei arrabbiarmi se qualcuno, per indicare l’involuzione in senso quantitativo della professione giornalistica e della relativa offerta di lavoro, usa il concetto a me caro, che di solito definisco giornalistificio, ribattezzandolo, senza mutarne il senso, “la fabbrica dei giornalisti“.
Ma non me ne risento affatto. Perchè la soddisfazione di vedere finalmente percepita, compresa e conclamata una degenerazione che da anni denuncio, nel deserto, è di gran lunga superiore a qualsiasi pretesa di primogenitura.
Sono ben lieto quindi che il sito del Ldsi (qui) abbia anticipato in questi giorni, sebbene solo in sintesi, l’aggiornamento (dati 2011) del Rapporto sulla professione giornalistica in Italia (a cura di Pino Rea per lo stesso Lsdi), titolandolo appunto “La fabbrica dei giornalisti”.
Come dire: l’italica rotativa del tesserino (e la sciagurata caccia al medesimo) non si arresta.
Nonostante, aggiungo io, tutto pare stia qui a dimostrare che la categoria è già ampiamente eccedentaria e che i nuovi colleghi che l’Odg vomita ogni anno a centinaia siano fatalmente destinati a ingrossare le fila dei disoccupati, dei sottoccupati, della false partite iva, dei collaboratori a vita e dei semidilettanti. Non per colpa loro, sia chiaro, ma se il trend è questo, è questo.
Rimando al sito chi volesse prendere visione delle statistiche e mi limito qui a un breve commento.
Il primo è questo: da noi ci sono 112mila giornalisti, il triplo che in Inghilterra e il doppio che in Francia. Qual è il motivo? Sarà perchè in Italia siamo tutti Indro Montanelli o forse anche perchè si acquisisce/si rilascia la qualifica con troppa, irrisoria facilità?
Il punto due consegue dall’uno: nonostante la crescita numerica, solo il 45% dei giornalisti italiani svolge la professione “ufficialmente”, ha cioè una posizione presso l’istituto di previdenza, l’Inpgi. Il restante 55% è dunque giornalista di nome, ma non di fatto, oppure fa il furbo evadendo i contributi previdenziali e restando “sommerso”. Non mi sembra nè serio, nè tollerabile.
Punto tre: l’aumento delle iscrizioni all’Inpgi (peraltro obbligatoria) è dovuto esclusivamente all’aumento delle figure degli “autonomi” (freelance, collaboratori, etc), i quali però, svela sempre il rapporto Ldsi, guadagnano un quinto rispetto ai colleghi contrattualizzati.
Conclusioni (mie): il fenomeno di “operaizzazione” del lavoro giornalistico sembra completato.
Non è vero insomma che nel mondo di oggi non c’è bisogno di giornalisti.
Più esattamente c’è bisogno di soggetti che di giornalistico abbiano la qualifica, ma che in sostanza abbiano le mansioni e le funzioni di operai dell’informazione: produrre serialmente, con criteri di massima efficienza e quantità, beni (le “notizie“) di scarsissimo valore unitario e tra loro perfettamente fungibili, così come sono facilmente fungibili gli “addetti” che le producono.
Una volta, in tempi meno politicamente corretti, si sarebbe detto “manovalanza“. Con un profilo professionale da manovalanza, un potere contrattuale da manovalanza e una retribuzione – va da sè – da manovalanza. Come insegna la legge della domanda e dell’offerta.
Non a caso, la stagione dei saldi a tre euro a pezzo è cominciata da mo’ e non accenna a terminare. Anzi, prospera. Potremmo già ribattezzarci le tute blu della tastiera.
Attenzione, però: la fase dei “vupubblicà” preme alle porte.