di URANO CUPISTI
A metà  anni ’80 il paese era una destinazione con poco turismo e un’infuenza occidentale legata soprattutto alle vicende coloniali. Me lo feci al volante di un’amica fedele, ma bugiarda (sui km).

 

La colpa di farmi venir voglia di visitare un Marocco all’epoca abbastanza negletto dal turismo fu un documentario su Fez, l’antica città imperiale. Fantasticavo incontri ravvicinati con le popolazioni berbere, che rappresentavano allora il 50% dell’intera popolazione, e di ammirare le vestigia delle civiltà che si erano susseguite a quelle latitudini: Fenici, Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini e, infine, gli Arabi.

A metà degli anni ’80 le città marocchine erano ancora una miscela delle più disparate architetture, le kasbah le moschee, le medine, i suq e anche le aree commerciali moderne, i distretti finanziari e i quartieri in stile europeo.

Arrivai a Rabat, la capitale amministrativa del Regno, nei primi giorni di settembre con un volo  della Royal Air Maroc. La trovai caotica, chiassosa, frenetica. Noleggiai una Renault R4, rossa, assolutamente bugiarda nel chilometraggio, ma che mi fu  comunque compagna fidata in tutto il viaggio (e di km insieme ne macinammo parecchi).

Quasi subito partii alla volta dell’Alto Atlante, il cosiddetto “tetto del Marocco”, con la vetta più alta del Nord Africa (il Djbel Toubkal, 4.167 metri di altezza). Ricco di siti archeologici, riuscì a rapirmi con i suoi paesaggi infiniti. Se non fosse stato per i villaggi di pastori, nemmeno ti sarebbe sembrato di essere in Africa. La natura era a portata di mano e la personalità berbera la rifletteva tra laghi, boschi di lecci, querce da sughero e altipiani vulcanici, in un puzzle che digradava nel Medio Atlante, turisticamente frequentato anche nel 1984.

Da lì la fida R4 mi portò verso la costa mediterranea, che si estende per oltre 500 chilometri dal nord-est al nord-ovest del Marocco. Acque azzurre, sabbie dorate e fini, meta estiva e vacanziera. Da Tangeri mi spinsi fino all’estremo oriente del Marocco e confine con l’Algeria, dove respirava una piena cultura arabo-andalusa: affascinante e molto lontana da certi stereopiti marocchini allora dominanti. E in seguito mi avventurai nella costa atlantica, oltre 3.000 km di paesaggio cangiante, dove si fondevano le culture tradizionali con quelle moderne, i dettami dell’Islam con le sempre più presenti modalità di vita occidentale. Ne ricavai una visione molto laica del nuovo Marocco, aperto e tollerante.

Ma furono le città, non solo quelle maggiormente conosciute, a regalarmi il Marocco che cercavo davvero.

A cominciare da Casablanca, capitale economica del Regnoe cuore dei traffici con l’estero. La trovai cosmopolita, moderna e frenetica, con la Medina assediata dalla città costruita dai francesi, la Nouvelle Ville, con banche, grandi alberghi e negozi moderni. Visitai, ovviamente, la grande Moschea di Hassan II, la Piazza  Mohammed V, il Parc de la Ligue Arabe, la Cattedrale del Sacro Cuore, il Palazzo Reale. Ma fu la passeggiata, zaino in spalla, lungo i tre chilometri della Corniche a regalarmi la visione più chiara, laddove il chiasso frenetico ricopriva la voce dei muezzin. Mi gettai alla ricerca del Café American, quello gestito dall’affascinante Rick, avventuriero newyorkese del film, quando Casablanca era meta di ogni tipo di umanità: spie, povera gente che voleva espatriare, eroi della resistenza, truffatori, trafficanti, giocatori di professione. Ovviamente non trovai nulla di tutto quello e fu un peccato, perchè ero pronto a entrarci vestito con il mitico trench à la Humphrey Bogart. Dedicai però un giorno intero alla Medina, relativamente piccola, non  impressionante come quella di Fez, ma comunque un quartiere vivace, ricco di suq dove comprai di tutto.

Poi toccò a Marrakech, dove la lista di cosa vedere a preparata prima della partenza comprendeva decine di attrazioni e luoghi da cartolina. Vidi la Moschea della Koutoubia, il Palazzo El Bahia, il Giardino Majorelle. Eppure, alla fine, gira e rigira mi ritrovavo sempre nella confusionaria piazza Jemaa el Fna, il cuore pulsante della città, col suq all’aperto dove vendevano letteralmente ogni cosa: perfino dentiere complete e denti singoli.

La vera roccaforte della cultura e dell’identità del Marocco, tuttavia, mi parve Fez, con le sue concerie all’aperto, la Madrasa Bou Inania, la “via di uno soltanto” (ossia una strada così stretta che si può percorrerla solo uno alla volta), la Moschea al-Qarawiyyin, il Mausoleo di Moulay Idriss II, fondatore della città, il quartiere Ebraico di Mellah, il Palazzo Reale, il Giardino Jnan Sbil, il Souk el-Attarine. Tutti luoghi fantastici. Ma fu la Medina medievale di Fez, a colpirmi di più, protetta dalle alte mura dove passeggiare nel labirinto di stradine (oltre 9mila). Mi persi tra mercati di ogni tipo, dai tappeti agli oggetti in ottone, della ceramica ai tessuti e alla pelle e dove spesso dovevi dare la precedenza agli asini carichi di merci.

Un Marocco accecante che, dopo quarant’anni,  forse non c’è più.

Ma io non posso saperlo: non si sono più tornato.