Al solito ho ricevuto in privato molti commenti – pro e contro – al pezzo sui motivi per i quali da tempo m’è passata la voglia di occuparmi delle questioni professionali. Eccone uno molto pratico ed attuale.

 

Come al solito ho ricevuto in privato molti commenti – di critica, di sostegno, di solidarietà, di sdegno pro o contro – al mio pezzo dell’altro giorno (qui) sui motivi per i quali da tempo mi è passata la voglia di occuparmi delle questioni professionali.

La prima cosa che mi viene da dire in proposito, come ho già fatto sui social, è: sarebbe molto meglio se i commenti, positivi e negativi, fossero sempre espressi in pubblico, perchè così allargherebbero il dibattito e creerebbero, forse, una maggiore consapevolezza generale sulle questioni de quo.

La seconda è: quelli che ho elencato mica sono i soli motivi della mia progressiva disillusione, e quindi distacco, dall’argomento.

Ce ne sono decine di altri.

Ne prendo uno a caso, solo perchè salito alle cronache abbastanza di recente: il nuovo codice deontologico (qui il testo completo) approvato dall’OdG a dicembre scorso e entrato in vigore il primo giugno. Quando fu pubblicato, gli dedicai (qui) un pezzo individuando quelli che, secondo me, erano dei punti critici, confidando in approfondimenti, chiarimenti, messe a punto. Naturalmente non è successo nulla, nonostante le intercorse elezioni per il rinnovo delle cariche dell’Ordine che, me ne sarà dato atto, sarebbero state un’ottima opportunità per riprendere il tema, sensibilizzando la platea dei consociati sul delicato tema.

Ora l’OdG torna alla carica dedicandogli giustamente corsi di formazione gratuiti on demand (qui), per la partecipazione a ognuno dei quali vengono oltretutto attribuiti ben 10 crediti deontologici per il triennio che si conclude a dicembre di quest’anno. Tentazione golosissima per i reprobi, considerando anche l’alto tasso di inadempienza all’obbligo formativo (che non a caso è contemplato dal codice, art. 28) che abitualmente si registra.

Qualcuno si chiederà allora cosa ci sia da criticare su questa iniziativa.

E la risposta è: sull’aspetto teorico, ovviamente, nulla.

Su quello pratico, invece, parecchio. Basta scorrere il testo (e, per i più volonterosi, le mie note a margine del medesimo), che si dilunga per 40 articoli sulla complessa materia.

Dopodichè i colleghi potranno guardarsi intorno, vedere che succede davvero nell’esercizio reale della professione, quello quotidiano, svolto sul campo, nelle redazioni, per strada, nei rapporti tra giornalisti e nelle relazioni tra questi e il mondo della comunicazione, della politica, dell’impresa e infine chiedersi: ma chi vive su Marte, io o questi qua? Sì, perchè il codice è con ogni evidenza uno sproloquio di norme tanto ineccepibilmente giuste, quanto in gran parte inapplicabili e soprattutto inapplicate. Non sto a fare esempi, tanto è lampante sotto qualsiasi tipologia.

Intendiamoci: in qualunque sistema le violazioni sono fisiologiche, ci mancherebbe altro. Il problema è che, nella nostra professione, queste sono anche infinitamente superiori agli adempimenti. E una categoria che non è più in grado di garantire un ragionevole tasso di regolarità nel comportamento dei propri membri (regolarità da cui dipendono il prestigio, la credibilità e la funzione stessa dell’esistenza della categoria in parola), forse qualche domanda dovrebbe farsela.

Come chi mi legge sa bene, ho il massimo rispetto dei colleghi che si impegnano nel tentativo di far rispettare la deontologia. Sia di chi fa parte dei consigli di disciplina, sia di chi, dal di fuori, comunque si sforza per far riaffermare principi che sembrano naturali tra chi fa il nostro mestiere.

Ma è evidente che non ci sono gli strumenti, l’organizzazione, i mezzi, forse neppure tutta la volontà necessaria per riuscirci. Lo scrivevo l’altro giorno: è difficile fare il gendarme in un mondo in cui buona parte dei consociati è già diventata fuorilegge, talvolta perfino senza saperlo, e delinque per impunita abitudine. La nostra professione è diventata opaca. I suoi confini incerti, per non dire quasi invisibili. Non si capisce chi è chi, chi fa cosa, nè si è in grado di governare tale opacità, frutto di una progressiva perdita di controllo e di identità. Una sorta di anarchia strisciante al cospetto della quale la solennità di un’organizzazione addirittura ordinistica e delle sue regole rischiano di apparire inutili, quando non ridicole. E lo dico con grande dolore, avendo difeso il sistema per decenni.

Non c’è però codice deontologico, severità, giudice inflessibile e minaccia di sanzioni che possano invertire questa tendenza di massa il cui esito sarà, temo più prima che poi, la fine della nostra categoria. O attraverso l’abolizione dell’Odg e di tutti i suoi apparati-satellite, o attraverso la sua dissoluzione per diluizione.

E quindi, di nuovo: perchè dovrei continuare a scrivere di una guerra ormai perduta?

 

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