di STEFANO TESI.
Fare di necessità virtù è alle scaturigini della tradizione gastronomica. Così ai 1800 metri di Livigno, dove il freddo e la povertà picchiavano duro, l’insaccato lo facevano con ciò che c’era. E per fortuna non hanno smesso.

C’è chi dalle rape cerca inutilmente di cavarci il sangue. E chi, invece, ne ricava il salame.
A Livigno – 1800 metri di quota, il posto più freddo d’Italia, il Piccolo Tibet dove prima di diventare il paradiso dell’extradoganale restavano isolati dalla neve sei mesi l’anno e seppellivano i morti al disgelo – fanno parte della seconda categoria.
Gente pratica, abituata da sempre a lottare con il ghiaccio e la povertà, i livignaschi. E quindi a inventarsi le cose più fantasiose per sbarcare il lunario, in una valle così alta che non ci cresce nemmeno la segale.
E così ecco la resina di larice da far sgranocchiare ai bambini all’alpeggio, come fosse un croccante, e appunto il salame di rape. O meglio la lughena da pasola, come la chiamano lì.
Intendiamoci: nulla o quasi della Livigno odierna ricorda, socialmente parlando, il paese di cinquant’anni fa. Anche le tradizioni si sono ormai omologate e pure a tavola imperano la monocultura del pizzocchero e della taragna.
Ma se si esce dai ristoranti e si va nelle case della gente, si scopre che i piatti antichi sopravvivono eccome, solo che i paesani amano più che altro goderseli tra sé, lontano dallo sciame dei turisti, durante le occasioni private o le feste comandate, fuori stagione. Tipo l’8 settembre, per la ricorrenza della patrona: Santa Maria Nascente. E’ allora che il viaggiatore curioso potrà scoprire, oltre alla lughena, la mösa, i borsàt o il potòl.
Io ad esempio ho scoperto il salame di rapa, abbinato a un bicchiere di sfuso valtellinese, andando a intervistare l’ultimo contrabbandiere, Rocco Sertorio, arzillo ottantenne che oggi è una presenza fissa alle rievocazioni folkloristiche livignasche.
Ma colei che (grazie alle ottime intercessioni di Dario Bormolini) di questo singolare salume mi ha spiegato i segreti e la storia è stata la sua coequipier fissa alle feste popolari, una delle poche e forse ultime custodi della tradizione gastronomica domestica della valle: Maria Silvestri, detta Maria Domenica o, da tutti, Ménia. Segni particolari: abita nell’unica baita di Livigno abbellita non solo di gerani, ma di erbe officinali, di essenze, di fiori messi ad essiccare al sole per ricavarne poi condimenti, preparati, unguenti. Poco lontano, il minuscolo orto protetto da assi di legno contro il freddo e il bestiame. Pochi fronzoli, molto cuore.
La mia richiesta di sapere come si fa la lughena da pasola la fa un po’ sorridere.
Si raccolgono le rape, quelle normali, si legano a mazzi e si lasciano ad asciugare nel fienile fino al periodo di uccisione del maiale (nutrito rigorosamente col polvin, cioè col rimasuglio del fieno misto a farina gialla e acqua, ndr), verso marzo. Poi – aggiunge – si fanno a pezzi avendo cura di togliere il torsolo, che dà un cattivo sapore, si cuociono in acqua bollente per tre o quattro ore, si fanno raffreddare e si comincia a mescolarle con il lardo del maiale, meglio se unito a qualche pezzetto di carne, in rapporto di due a uno, tritando il tutto con l’aggiunta di un po’ d’aglio, fino a ottenere un impasto di grana grossa e di colore giallo scuro. Si lascia poi a decantare rimescolando bene e quindi si aggiunge sale, pepe, garofano, cannella o noce moscata. Dopodichè si insacca nel budello di pecora. Già dopo quindici giorni il salame è pronto da mangiare”. Secondo altre fonti, ma Mènia non conferma, qualcuno aggiunge alla miscela anche del cavolo.
A Livigno la tradizione prevede salamini abbastanza sottili dalla caratteristica forma ricurva, pesanti qualche etto e più facili da stagionare. Nella frazione di Trepalle (500 mt più in alto, sede parrocchiale più alta d’Europa) usano invece la stessa tecnica e gli stessi ingredienti, ma tendono a fabbricare salsicciotti più grossi.
Come si consuma questa specialità?
Innanzitutto a pezzi, rompendola con le mani e non con il coltello, senza sbucciarla”, raccomanda l’esperta massaia. La si può mangiare fresca oppure cotta e resa croccante sul fornello, oppure messa in forno. Oppure nella minestra di latte. Ma anche stagionata (se stagionata bene può durare fino a due anni, senza perdere sapore né consistenza) è ottima. “E’ l’ideale al pascolo o durante le escursioni, leggera e pratica”, sottolinea.
Poi va di sopra, prende dal fienile l’ultimo salamino di ventiquattro mesi, lo spezza e me lo porge: odore di aglio piuttosto penetrante e di carne stagionata, senza sentori di rancido. La consistenza è quasi friabile, con un impasto assai asciutto, piuttosto grossolano, che si sbriciola sotto i denti rilasciando subito il classico sapore delle rape, poi dell’aglio, poi della carne e del lardo. Il gusto non è molto persistente ed invoglia ad altri bocconi, come una salsiccia da birra meno compatta, meno salata e meno saporita. Il gotto del vino fa il resto.
Poi tra una cosa e l’altra la conversazione vira verso i tempi passati e la vita di un tempo. Al momento della rievocazione delle valanghe dell’inverno 1951, la lingua di Maria di asciuga e gli occhi le si velano.
E anche la lughena prende un sapore diverso, che con quest’articolo non c’entra più nulla.

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