Con un singolare horror ambientato in una Livigno innevata, il romanzo di uno scrittore dilettante piove per caso sul mio comodino e si snoda tra colpi di scena e grandguignol. Ne esce un giallo a volte quasi caricaturale, di cui però la familiarità coi luoghi diventa il propellente decisivo. E che alla fine avvince.

Bisogna ammettere che un romanzo ambientato nei luoghi che conosci bene assume spesso tutto un altro sapore. Difficile dire se la riconoscibilità della scena acuisca o esalti la tua immaginazione. Ma non c’è dubbio che la condizioni.
Ci pensavo ieri pomeriggio, mentre rileggevo le ultime pagine de “L’ammiratore” (Il Ciliegio Editore, 240 pagine, 16 euro), una bislacca storia a cavallo tra l’horror e il thrilling scritta da un pizzaiolo toscano e immaginata tra le baite innevate di Livigno, località turistica dell’Alta Valtellina che frequento regolarmente da (ahimè!) quarantanni tondi tondi.
Un posto insomma che conosco bene e nel quale, lo dichiaro, mai mi sarebbe venuto in mente di rintracciare le atmosfere granduignolesche, a cavallo tra il fumetto e il videogame, evocate invece, con grande dovizia di particolari raccapriccianti, dall’autore: Andrea Palazzo. Un altro che come me vanta lunghe frequentazioni livignasche.
Avevo notato il volume quest’estate proprio a Livigno, presentato in gran pompa appunto come un giallo la cui trama si svolge nel “piccolo Tibet” valtellinese. Ne avevo richiesta una copia e l’avevo letta, senza però appassionarmi un gran che.
Mi infastidivano un po’ certe ambientazioni da B-movie, qualche luogo comune di troppo e una storia che, a metà libro, stentava a prendere il volo.
Insomma l’avevo messo da parte, a decantare.
L’ho ripreso in mano ieri e l’ho rivalutato.
Non si tratta di un capolavoro, intendiamoci. La prosa non brilla, la storia si snoda un po’ meccanicamente tra sorprese fin troppo prevedibili e la mancanza di scatti, di colpi di reni.
Eppure, a ripensarci e forse perfino a dispetto, direi nonostante questa sua tendenziale piattezza formale, la vicenda intriga, ha un suo fascino e trova proprio nella cadenza da cartoon la sua ragione d’essere.
Perchè il racconto si annoda in una perversione grottesca che è quasi narrativa, un intreccio oltremodo complesso che si dipana – con inventiva e qualche accanimento – tra i pochi personaggi mossi come pedine sulla scacchiera di una Livigno ovattata di neve ma al tempo stesso, e questo è un gran pregio, assai poco cartolineggiante, a volte addirittura plumbea, tra i colori algidi del perlinato di certi recenti condomini e i riflessi lattiginosi, tono su tono, che il cielo nuvoloso regala ai paesaggi invernali.
Su tutto, ovviamente, agli occhi del lettore che conosce i luoghi si stagliano gli sfondi, il rincorrersi dei toponimi, l’incrociarsi delle strade, i locali pubblici dai nomi dissimulati, perfino le facce di alcuni protagonisti, in un crescendo di suspence che è difficile dire fino a che punto sia voluto e fino a quale scada nel meccanismo emotivo mosso dagli effetti cruenti su cui si regge la storia.
Tra gare di sci, Fbi, echi milanesi e cartoline (quelle sì) newyorkesi, carabinieri in divisa e agenti segreti in trench, bambini rapiti e assassini seriali la vicenda si articola così tra colpi di scena che si fanno via via sempre più ravvicinati, coincidenze che somigliano a nodi scorsoi sul collo della soluzione finale, maschere che progressivamente cadono. E quanto più la trama perde di verosimiglianza, tanto più lo sfondo si fa fosco, arricchendosi di citazioni filmiche, flashback da fumetti Marvel, suggestioni pulp, fotogrammi kitsch, rigurgiti visionari.
Come in una Gotham City di montagna, piccola e coperta di neve.
A tal punto che il finale (in realtà sono due, perfino tre, quasi quattro) è quasi tarantineggiante, sospeso tra la cinepresa di Mario Bava e le smorfie di Thomas Milian, spezzoni di Shining e l’ombra del tenente Sheridan.
Da tenere sul comodino durante la settimana bianca. Soprattutto se fuori nevica.