Dopo decenni ho rivissuto, con umori alterni, la tormentata avventura del rientro dal Piccolo Tibet dell’Alta Valtellina coi passi del Gallo e del Foscagno bloccati dalla neve. Salgono i ricordi, ma il mondo e la montagna sono molto cambiati.

 

Nell’anno del Signore 2019 e quel dì di ieri, 2 febbraio, siamo rimasti bloccati a Livigno da 36 ore ininterrotte di neve. Tutti e tre i passi chiusi:  la Forcola per default da ottobre a maggio, il Gallo e il Foscagno per rischio valanghe.
Una situazione surreale, che avevo vissuto l’ultima volta forse oltre quarant’anni fa, quando le cose – il clima, le strade, le auto – erano molto diverse.
Eppure tutto succede lo stesso, come è successo ieri.
Solo che stavolta mancava l’irripetibile sapore pionieristico di allora, quando dei disagi subiti si poteva vantarsi in cuor proprio, mettendo sull’altro piatto della bilancia il privilegio e l’avventura di essere pochi, coraggiosi e capaci di cavarsela.
Difficile spiegare oggi com’era la Livigno degli anni ’70 e anche dei primi anni ‘80.
Nevicava assai di più e più spesso ed era anche molto più freddo di oggi. Ho visto notti con -30° e oltre. Muraglie di neve ai lati della carreggiata, montagne sui tetti, trincee per arrivare ai portoni delle case. Mezzi di sgombero rudimentali in un paese che, incredibile, era ancora rurale, sebbene l’industria del turismo stesse prendendo rapidamente piede. In centro c’erano stalle e mucche, al posto dei taxi c’erano le slitte trainate dai cavalli che di notte solcavano l’aria gelida e buia frapposta tra le case ancora rade, disposte in fila indiana, per chilometri.
Ancora più difficile, però, è spiegare ora come si raggiungeva il paese, a quei tempi.
Se è vero infatti che l’avvicinamento fa parte del viaggio e che il vero viaggio è a volte proprio quello che ti porta alla meta, nel caso livignasco questa verità era doppia, anzi pure tripla, in un posto dove fino al 1952 non c’era una carrabile praticabile d’inverno e, quindi, il paese rimaneva tagliato fuori dal mondo per sei mesi l’anno. E che anche dopo, per decenni, è rimasto collegato alla madrepatria solo da una fragile statale con doppio passo alpino oltre quota 2200.
La prima volta venimmo nell’estate del ’71, in camper. La notte fece talmente freddo che rimanemmo in panne perché gelò tutto, tubi del riscaldamento compresi. Ma quel luogo quasi selvaggio ci colpì, anzi forse ci piacque proprio per quello. E tornammo per sciare l’inverno successivo. In albergo, però.
Da Siena, via Bormio, impiegammo undici ore. Un po’ perché la carovana di amici di cui eravamo parte era lenta, un po’ perché la statale del Foscagno più che una strada era un budello ghiacciato e pieno di buche, con auto in colonna condotte da autisti incapaci e pullman intraversati.
L’anno dopo mio padre e i suoi amici, già rallysti, scoprirono che si poteva arrivare più scorrevolmente passando dalla Val Venosta, via Parco Nazionale Svizzero, Grigioni e l’allora avveniristico tunnel Munt La Schera sotto la montagna. Credo però che, in realtà, abbia contribuito alla scelta anche la prospettiva di lunghi tratti di guida veloce su fondo innevato o ghiacciato.
Questo secondo percorso non era però, a pensarci bene, tanto meno tormentato del primo. C’erano un passo a quota 2.149, almeno cinquanta chilometri di strada di montagna con valanghe, ghiaccio e tornanti, altri cinquanta di una Val Venosta allora anch’essa profonda, più due noiosissime e fiscalissime dogane da superare. Ma era comunque meglio che trascorrere mezza giornata incolonnati sul Foscagno.
Per dare un’idea (e, ripeto, mio padre era guidatore abile e già pilota di rally) delle difficoltà, delle incertezze e dei preparativi a cui la trasferta ci costringeva, per alcuni anni partimmo in cinque, carichi come muli sulla nostra BMW 2002 Touring, portando sul portabagagli le gomme chiodate da montare al confine di Tubre, tra Italia e Svizzera, per affrontare le rampe e il parco elvetici e poter poi circolare senza problemi a Livigno, quota 1816, dove le strade rimanevano coperte durante l’inverno da uno spesso strato di ghiaccio.
In seguito, prendemmo l’abitudine di partire da Firenze con le gomme chiodate già montate, tanto era praticamente certo o quasi che da metà della Val Venosta in poi ce ne sarebbe stato bisogno.
Senza imprevisti, la durata del viaggio si ridusse (soste rigorosamente proibite, si capisce) a sei ore e mezzo circa, ma un anno particolarmente tempestoso, forse nell’inverno 1977/78, un nostro amico (non un drago del volante, a dire il vero) partito addirittura con la Campagnola da Scandicci alle 6 del mattino, arrivò in albergo alle 10 di sera, dopo aver montato forse un po’ troppo prudentemente le catene (le catene sulla Campagnola…) a Trento, in autostrada, pur sotto la tempesta di neve.
Poi c’erano, appunto, gli imprevisti. I quali nella maggior parte dei casi erano valanghe che bloccavano la strada. Una volta siamo rimasti ore in un asettico ristorante-rifugio svizzero, mangiando carne salata, bevendo birra Calanda e guardando in tv quella leggendaria edizione della discesa libera di Wengen (forse proprio il 1977?) in cui Konrad Bartelski si capovolse sul salto sopra la strada e fu autore di una delle più drammatiche cadute che io ricordi. Me lo sono poi trovato da avversario (oddio, avversario: l’ho visto alla partenza e poi è scomparso all’orizzonte, vedi qui) vent’anni dopo allo slalom gigante delle Olimpiadi invernali dei giornalisti.
Le valanghe e i blocchi stradali più frequenti si verificavano, tuttavia, quando ormai si era o si pensava di essere a un passo dalla meta, cioè sul lungolago italiano che portava e porta tuttora (ma oggi coperto per intero da una galleria artificiale che lo ripara) dal tunnel a Livigno: undici chilometri del tutto esposti ai fianchi nudi e franosi della montagna. Qui le slavine, con le nevicate di allora, erano all’ordine del giorno e spesso ci si restava in mezzo, con attese di ore che la strada fosse liberata. Una specie di percorso a handicap. Del resto, pare che l’etimo del nome Livigno sia proprio leina, cioè slavina. A metà percorso c’era il ristoro Fopel, che oggi è un ristorante (comunque miracolato da una frana l’estate scorsa con gli ospiti salvati in gommone, riguardate le cronache) ma allora era una bettola per montanari, dove nelle more spesso ci siamo sfamati con vinello e formaggi locali.
Prima che negli anni ’60 costruissero la diga idroelettrica che ha creato il lago, nel quale oggi vanno ad arenarsi le valanghe, lì c’erano l’antico sentiero che portava nei Grigioni e qualche sperduta frazione livignasca, ormai malinconicamente sommersa dalle acque verdi e gelide.
Insomma, arrivare a Livigno a quei tempi non consisteva solo nella scarica di adrenalina data dall’idea di cominciare l’agognata settimana bianca, ma nell’eccitazione per avercela fatta, di inalare quell’inconfondibile odore di neve ghiacciata mista a gas di scarico e gasolio, di ascoltare in lontananza lo scarrocciare delle funi degli skilift.
Cose perdute alle quali però era impossibile non ripensare mentre si stava seduti nella hall dell’albergo, in attesa che arrivassero notizie sullo sgombero delle strade e la riapertura dei passi.
Esattamente come quarant’anni fa. O quasi.
Quello che è rimasto identico è la ritirata di Russia dovuta fare per il rientro, ostaggi dei soliti sprovveduti che, già pessimi autisti sull’asfalto, poi pretendono pure di affrontare la neve alta senza catene, con effetti più tragici che comici.
Nel 1979 li avrebbero lasciati lì e ritrovati al disgelo.