di FEDERICO FORMIGNANI
Nei primi anni del XVI secolo un anomimo affarista di Milano gira per l’Europa facendo le pulci e i conti in tasca alla gente che incontra: tutto rigorosamente in meneghino e coi “parametri” meneghini dell’epoca.

 

L’incessante girovagare delle persone nello scorrere dei secoli e la testimonianza delle diverse esperienze vissute, sono arrivate sino a noi in molti modi: documenti cartacei, libri, registri commerciali e così via. Uno di questi documenti – conservato presso la Biblioteca Britannica – parla dell’itinerario in Europa di un anonimo mercante milanese, attivo nei primi anni del 1500.

Luigi Monga, un professore che insegna letteratura italiana e francese negli States, si è adoperato per mettere ordine ai vari fogli conservati in Gran Bretagna, pubblicando in seguito un libro che raccoglie e commenta le molteplici esperienze dell’estensore di tali note di viaggio.

L’anonymus mediolanensis doveva essere un mercante, forse un banchiere, con tutta probabilità legato al Banco dei Borromei, nobile famiglia ambrosiana che disponeva di una filiale in Londra già dal 1435 e di altri uffici a Bruges nelle Fiandre e in Catalogna, a Barcellona. Con il suo “Diario di Viaggio” ci conduce nel bel mezzo di un’avventura per certi versi unica perché filtrata da occhi curiosi (quelli del viaggiatore) e insieme attenti (quelli dell’affarista). Il tutto, mediato da una milanesità che finisce per esaltare – nell’interessante gioco delle contrapposizioni – ogni più minuta scoperta geografica e umana. Il Cinquecento è secolo di grandi movimenti in Europa: oltre ai pellegrini che visitano i luoghi deputati della fede (Roma, la Terrasanta e i numerosi santuari della cristianità: Mont-Saint-Michel, Montserrat, Compostela, San Michele del Gargano, ecc.) troviamo in movimento mercanti, soldati, artisti, principi, diplomatici, ecclesiastici, universitari vagantes, oltre che guitti e avventurieri. Molti mettono per iscritto, in un mosaico di lingue diverse, le loro esperienze e avventure di viaggio e per far questo, citano nomi di località, annotano modi di vita della gente, utilizzando le parole allora in uso e l’idioma italiano parlato e scritto in quei secoli.

Un aspetto interessante, nelle descrizioni dell’anonimo milanese, è dato dai frequenti termini di paragone con la realtà della sua città, sempre presente in ogni circostanza. Ricorda infatti come il perimetro delle mura di Gand sia, per lunghezza, pari al circuito del Redefossi (un canale del sud Milano) così come la “…piaza de gran mercato di Raso (Arras) è grande due volte come la corte de Milano”.

L’imprinting ambrosiano riaffiora prepotente anche quando il mercante parla dei personaggi italiani o lombardi incontrati – o dei quali è venuto a conoscenza – nel corso dei suoi viaggi, in particolare in Spagna. Mercanti incontrati a Medina del Campo; un certo Giovanni Ambrogio Cernuschio da Monza visto a Toledo e due canturini – Raffaele Ondegardo e Ottaviano Carcano – coi quali viene in contatto a Cordoba. Conosce diversi religiosi, professori d’università (Giason del Majno, famoso giurista) e un discepolo di quest’ultimo, tale Francesco da Riva, pavese, la cui buona fama ha convogliato molti studenti nel suo studio di Avignone. Si concede anche svolazzi poetici quando ricorda di aver visitato, sempre in Avignone, “la casa ove stava madona Laura et quella del Petrarcha, quale li he a dirimpecto; he quella de madona Laura assay sumptuosa”.

 Mercante, affarista, sempre attento ai fenomeni economici, da bravo ambrosiano fa i conti in tasca un po’ a tutti. In Inghilterra scopre che il re vanta una rendita di 600mila scudi per dazi ordinari e di 400mila per dazi straordinari. Per rimanere in zona, ecco il Cardinal Wolsey che si accontenta di soli 40mila scudi, cifra che compete anche al vescovo di Vincestre (Winchester) Richard Fox, somma questa pari a “lire 8.000 de sterlinghi”. Scopre in Anversa che i dazi per vino e birra ammontano a 200mila scudi e precisa: “non he maravilia, perché se ne beve assayssimo et di l’uno et di l’altro”. In Francia, l’arciduca di Borgogna non se la passa poi tanto male coi suoi 300mila scudi di rendita; una vera fortuna, se paragonata al salario dei professori universitari di Parigi, pagati direttamente dagli “scolari dil collegio che fano tra loro certte taxe et pagano li lectori, ma gli dano pocho”. Messo bene, infine, è anche il re di Spagna, che “ha de intratta de li regni di Spagna circa ad 300 concti, che sono circa ad ducatti d’oro 800mila”.