di FEDERICO FORMIGNANI
Nella sua breve vita Carlo Porta (1775-1821), massimo poeta dialettale milanese e uno dei maggiori d’Italia, ne ebbe di sferzanti per tutti: concittadini e non. Ad esempio per un senese che aveva criticato il dialetto di Milano…

 

Con l’età che avanza, faccio in modo di trovare lungo l’arco della giornata il tempo e la voglia di sfogliare, ad esempio, vecchi libri preziosi. Ecco allora che per quei pochi ai quali il dialetto interessa ancora, propongo alcune divagazioni satiriche del grande Carlo Porta, massimo poeta del dialetto milanese e uno dei maggiori d’Italia. Nato nel 1775 e morto nel 1821 (aveva solo 46 anni) Porta ha descritto con i suoi poemi la vita del tempo, le debolezze e le virtù di una società che cresceva insieme alla propria città; i personaggi da studiare e tratteggiare non mancavano di sicuro. Il poeta era un acuto osservatore e la sua penna, di volta in volta, poteva essere teneramente poetica, astutamente indagatrice, all’occorrenza perfida e acuminata. Come dimostra un sonetto dedicato a tale Gorelli di Siena, cancelliere del tribunale d’appello, che parlando con gli amici non mancava di esternare l’antipatia per Milano, per il dialetto che giudicava rozzo e verso chi perdeva tempo nel trasporlo in versi. La risposta del Porta arriva immediata, tagliente. L’inizio ha subdolamente toni amichevoli: “…i paròll d’on lenguagg, car sur Gorell, hin ona tavolozza de color, che ponn fa el quader brutt e el ponn fa bell, segond la maestria del pittor” (le parole d’una lingua, caro signor Gorelli, sono una tavolozza di colori che possono fare il quadro brutto o lo possono far bello, secondo la maestria del pittore). Poi stringe la morsa della satira attorno al collo del malcapitato Gorelli; comincia dicendo che il dialetto non è divertimento paesano, ma retaggio di chi coltiva l’amore per lo studio; e conclude: “…tant l’è vera che in bocca de ussurìa, el bellissem lenguagg di sïenes, l’è el lenguagg pu cojon che mai ghe sia” (tant’è vero che in bocca di vossignoria, il bellissimo linguaggio dei senesi è il linguaggio più stupido che ci sia).

A cavallo dei due secoli (1700-1800) presso gli strati nobili della società, erano tenuti in grande considerazione – e per tale motivo coccolati e ingrassati – i cani e gli animali da salotto. Subito il Porta scrive un “Epitaffi per on can d’ona sciora Marchesa” che non manca di colpire nel segno; la vita era dura per molti e non trovava giusto, il poeta, che un cane godesse di agi e riguardi negati ai poveri cristi di Milano. E scrive: “..chì gh’è on can che l’è mort negàa in la grassa, a furia de paccià di bon boccon; poveritt che passee, tegniv de bon, che de stoo maa vee mai pu su l’assa” (qui giace un cane che è morto affogato nel suo grasso a furia di papparsi buoni bocconi; poveretti che passate, consolatevi, perché di questa malattia non andrete mai a finire sull’asse). L’“assa” era una nuda tavola sulla quale finivano i morti indigenti d’un tempo, per essere poi trasportati al cimitero. Di sonetti satirici è zeppa l’opera poetica del Porta; c’è quindi solo l’imbarazzo della scelta: dei temi, dei personaggi, come quest’ultimo che merita di venire segnalato. È uno dei più famosi, dedicato a un cavadenti da strapazzo, tale Sur Lella, secondo gli storici un certo dottor Bonella, che aveva il torto niente affatto trascurabile di non saper svolgere bene il proprio mestiere.

Lo aggredisce il Porta: “…ma sal, el mè sur Lella, che a dì pocch el merita de vess casciàa in galera? asen fottuu! ch’el vaga a strappà sciocch e minga strappà i dent in ‘sta manera!” (ma lo sa, caro il mio signor Lella, che a dir poco meriterebbe d’esser cacciato in galera? Asino fottuto! Vada a strappare ceppi e non denti in questa maniera!). Il poeta informa poi il lettore che quella frana del dottor Lella gli ha rovinato un buon quarto di dentatura, mentre il dente guasto era uno solo. Aggiunge inoltre che sapeva delle voci popolari che accreditavano i dentisti di scarsa o nulla professionalità; per alcuni di essi il risultato finale era: via il dente o la mascella! E conclude:

“…ma lu, sur Lella, senza avegh la flemma de fa vuna di dò, come fan lor, el strappa la ganassa e el dent insemma” (ma lei, signor Lella, senza avere la delicatezza di fare una delle due cose, come son soliti far loro, strappa la mascella e il dente insieme). Anche di questo sonetto Carlo Porta fa ampia distribuzione a conoscenti e amici, per evitare ad altri i dolori da lui patiti. L’opera di “persuasione” (manoscritta) deve indubbiamente a suo tempo aver avuto grande successo, tant’è che ancor oggi a Milano, per bollare un medico di incapacità congenita, si usa dire che “l’è on dottor del Lella!”.