di FEDERICO FORMIGNANI
Seconda puntata della rubrica del lunedì dedicata a lingue e dialetti. Dalla gerarchia sociale e dalle leggi che regolavano quel popolo, disceso in Italia nel 568, derivano parole, situazioni e termini curiosi che usiamo ancora oggi.

 

Giunti in Italia nell’anno 568 attraverso il valico friulano del Predil, i Longobardi rifiutano inizialmente qualunque commistione con i popoli che invadono, da loro definiti Romanici. Molto inferiori per numero – alcune cronache danno un totale di circa 40.000 invasori, altre 100.000 – i Longobardi intendono mantenere i tratti che li differenziano profondamente dai loro avversari Bizantini e Romanici.

Parlano una lingua germanica, sono pagani o professano una religione ariana. Il loro arrivo stravolge profondamente l’assetto fondiario della penisola, mediante una sistematica confisca dei latifondi, che vengono distribuiti ai Nobili e agli Arimanni (uomini liberi). Inizialmente, la conquista vede anche la soppressione o l’allontanamento del ceto dirigente latino (nobiles), mentre i sopravvissuti debbono cedere ai nuovi padroni un terzo dei loro possedimenti in terre e in beni materiali.

Il Gairethinx longobardo, ovvero l’assemblea del popolo in armi, decide l’elezione del Re e delibera sulle scelte politiche, diplomatiche, legislative e giudiziarie più importanti. In tali consessi, i Duchi e i Capi delle Fare rivestono un ruolo preminente che si sarebbe radicato sempre più nei territori conquistati, dal nord al sud d’Italia. Ecco quindi prender forma i Ducati, nei quali si insediano le Fare (molte località italiane hanno il toponimo Fara) che riconoscono la supremazia del duca.

Tutto meno che “barbari”, dunque, i Longobardi. Il termine greco bárbaros e quello latino barbărus indicano lo “straniero”, nel senso di persona “balbettante, non in grado di farsi capire”, perché parla un idioma differente. Ma i nuovi arrivati dimostrano di avere un’organizzazione sociale che allontana in maniera decisa il significato negativo e spregiativo della parola; semplicemente, all’inizio, non ci si capiva per motivi linguistici. Come ricorda Paolo Diacono, autore della Historia Langobardorum, la conquista della penisola favorisce la nascita di un gran numero di Ducati. Sono oltre trenta: alcuni vasti e importanti come Friuli, Spoleto, Benevento e altri piccolissimi, come l’isoletta di San Giulio sul lago d’Orta.

Il Re risiede a Pavia, capitale del Regno e i Duchi, disseminati un po’ ovunque, dirigono l’andamento dei vari territori del regno. Reggitori di Corte presso i Ducati sono i Gastaldi (dal longobardo gastald); sono amministratori di beni demaniali, comminano multe e riscuotono i redditi da tassazione. Il Gastaldo era sempre nominato dal Re, cui facevano corona i Gasindi, seguaci e familiari del sovrano; questo vocabolo proviene dal medio-alto tedesco gesinde (compagni di viaggio, d’armi). Scendiamo nella scala sociale. Il Marescalco (dal francone marhskalk) era il capo supremo delle guardie regie o anche colui che si occupava delle scuderie reali. Altra funzione di notevole importanza era riservata al mahordomus (dal tardo latino major domūs), responsabile dei servizi interni di Corte. Non meno importante era il referentiarius, capo della Cancelleria, formata dai notarii regi. E arriviamo ai famosi Sculdascio, dei giudici di grado inferiore che discutevano le cause civili, riscuotevano tributi, costringevano i debitori a pagare e facevano in modo che le sentenze venissero eseguite. La parola proviene dal termine amministrativo longobardo skuldhaizo, simile al tedesco Schultheiss (giudice, podestà). Sottoposti in ordine d’autorità agli Sculdasci erano i Degani (capi di dieci o dodici fare) responsabili del buon andamento delle comunità rurali.

L’Editto di Rotari (un insieme di leggi promulgate nell’anno 643 dal re Rotari) prevede infine, tra i molti aspetti della vita sociale dei Longobardi (in rapida via di integrazione con i popoli latini) le punizioni pecuniarie in caso di delitti, offese fisiche o lesioni, stabilendo quanto debba essere pagato in funzione dello stato sociale dell’offeso. Tutto questo, al fine di evitare la fajda, ovvero la vendetta tra contendenti, che poteva anche protrarsi per anni.

La moneta era detta solido e le tariffe stabilite notevole motivo di curiosità: in caso di uccisione, 900 solidi da pagare per gli uomini “liberi” e 1200 per le donne, che valevano dunque di più. Per qualche dente rotto nel corso di un litigio: 8 solidi per dente; per ferite al volto del contendente: 16 solidi.

I Longobardi del nord coniavano monete dette tremissi, mentre al sud erano più diffusi i solidi, tenute entrambe in grande conto dalle autorità. Ne è prova una voce dell’Editto che recitava: “Se qualcuno, senza ordine del Re, batte oro o conia moneta, la mano gli sia tagliata”.