di FEDERICO FORMIGNANI
Inauguriamo la NUOVA RUBRICA di Federico Formignani dedicata al rapporto sempre attuale tra lingue, dialetti e modi di dire. Si comincia coll’Alighieri, che non ne passava una ai quattordici differenti volgari del suo tempo…

 

In principio era Babele, con la sua torre di presunzione favorita dall’unità linguistica e il conseguente smarrimento cosmico tra genti non più in grado di capirsi tra loro. Secoli dopo, arriva nella penisola Dante che prende nota ed indica l’esistenza di tre lingue originarie: la greca, la germanica e la romanza attraverso la quale, per passaggi logici e cronologici, discendono le lingue contraddistinte dalle rispettive particelle affermative: quella d’oil – antico francese, quella d’oc o provenzale e quella del Paese dove ‘l sì suona.

L’Italia di Dante si compone di quattordici differenti volgari, ma va da sé che le varianti dialettali superano di gran lunga il centinaio. Nella puntigliosa ricerca di quale possa essere la parlata migliore, il sommo poeta stabilisce che è necessario “…aver sgombro il cammino, eliminando prima dalla selva i cespugli intricati e i rovi”; quindi ogni parlata montana o campagnola, per Dante, rappresenta la “pula” dei volgari; la metafora della spulatura del grano ricorre anche nel Convivio.

Dopo aver definito “squallida” la parlata romana e aver criticato non poco quelle toscane, la prima bordata critica è riservata alle parlate di Trento, Torino e Alessandria: “…sono tanto vicine ai confini d’Italia che non possono avere linguaggi puri”. Con i genovesi Dante si dimostra ironico: “…se costoro dimenticassero la lettera zeta, dovrebbero rinunciare completamente a parlare”, mentre per i milanesi e i bergamaschi ricorda che per schernirli qualcuno cantò: enter l’ora del vesper, ciò fu del mes d’ochiover (nell’ora del vespro, ciò avvenne nel mese d’ottobre); la citazione dantesca pone in evidenza la patina dialettale che è data dall’abbondanza dei troncamenti (enter, vesper, mes, ochiover). Curiosa poi è la “correzione” del lombardo antico zò fo nella forma toscanizzata di “ciò fu”. È ora la volta dei bresciani, dei veronesi e dei vicentini che adoperano d’abitudine l’intercalare magara (magari!): “…sono depositari di un volgare ispido e irsuto che non solo rende irriconoscibile una donna quando parla, ma ti induce persino a dubitare, o lettore, che essa sia un uomo!”. Per contro, i difetti dei padovani e dei trevigiani sono più sfumati. I primi riducono tutti i participi e le parole in -ato (mercò per “mercato”), mentre i secondi pronunciano la consonante V come una F (nof  invece di “nove” e vif  invece di “vivo”); “…abitudine, questa, che noi disapproviamo come scorrettissima”. Anche i veneziani non si salvano: ciò che scandalizza Dante è l’esclamazione plebea “per le plaghe di Dio tu non verras” (per le piaghe di Dio, non ci verrai).

Più morbida è la posizione del poeta con le parlate emiliano-romagnole. Definisce femminea, foneticamente gravida di mollezze, la parlata di Forlì; cita l’affermazione deuscì (composta da Dio/Dea con “sì”) e le lusinghe oclo meo e corada mea (occhio mio e cuor mio). Alla fine si sbilancia un po’: “…forse non è sbagliata l’opinione di chi dice che il linguaggio parlato dai bolognesi è il più bello. Riceve dolcezze e mollezze dagli imolesi, prende invece dai ferraresi e dai modenesi una certa qual asprezza che è propria dei lombardi e che, a nostro avviso, è rimasta ai nativi di quella regione in seguito alla mescolanza con gli stranieri Longobardi”.

Dante conclude affermando che il volgare illustre, cardinale, regale e curiale è quel linguaggio che assomma il meglio di tutte le città. Che tipo di volgare è? Quello impiegato dai Poeti, naturalmente con la P maiuscola.