di FEDERICO FORMIGNANI
Con la stagione delle anteprime vinicole, un po’ di aneddotica storica sul vino non solo non guasta, ma giova. Ad esempio quella sul rapporto tra la nostra bevanda preferita e gli ordini monastici medievali.

 

Il vino è una bevanda antica, è risaputo.

Era conosciuto e apprezzato molto prima che l’ondata monastica invadesse l’Europa. Ne facevano uso nel mondo greco e in quello romano e il nettare figlio dell’uva veniva rinforzato o addolcito – anche per facilitarne la conservazione – con spezie, miele e altro ancora.

Poi con le invasioni barbariche, che hanno determinato il crollo di diverse civiltà, prima fra tutte quella romana, con immancabili ripercussioni su molteplici attività legate alla terra, in parte abbandonata perché gli uomini servivano per combattere, è arrivato il Medioevo.

È merito della Chiesa se molte coltivazioni sono state riprese e quella della vite è tornata in auge. I monaci di vari Ordini hanno diffuso la vite ovunque il clima lo permettesse. In pratica coltivare la vite, e ridare nobiltà a questa difficile arte, ha consentito gradualmente di raggiungere livelli di resa e di qualità notevoli.

Il cristianesimo aveva bisogno del vino per celebrare la Messa. Ma parlare di vino ai tempi dei primi tentativi monastici, voleva anche dire affrontare enormi problemi di trasporto e di costi elevati. Da qui, la soluzione più ovvia: i vescovi hanno fatto piantare vigne ovunque, specie attorno alle sedi vescovili, mentre i monaci, lontani dai centri urbani e inizialmente poveri e autarchici, hanno trovato appropriato e conveniente seguire identica linea di condotta. In effetti essi sono, nel vero senso della parola, i patres vinearum, ovvero i padri delle vigne. La coltura della vigna è così importante che il praepositus primus, che viene in linea gerarchica subito dopo l’abate, ne ha l’incarico.

Per l’Italia la lista dei vini prodotti dai vari Ordini è altrettanto lunga che per la Francia. Ai Cavalieri di Malta si devono il Bardolino, il Soave, il Valpolicella e il vino dei colli del Trasimeno; ai Benedettini il Cirò, il Freisa, il Ragnano, il Greco di Gerace e il Greco di Tufo, il Mmonsonico e il Santa Maddalena; ai Benedettini e ai Carmelitani Scalzi il vino dei colli Euganei. Sempre ai monaci scalzi e ai Gesuiti (oltre che ai monaci di Grottaferrata) il Frascati. ancora ai Gesuiti si deve il Lacrima-christi; ai Certosini e ai Cavalieri di Malta il Capri; ai Cistercensi il Gattinara e lo Spanna; ai Templari infine il Locorotondo. Tutti vini famosi.

Ogni comunità di monaci che iniziava una fondazione non aveva preoccupazione più pressante, dopo essersi assicurata la sopravvivenza, che quella di piantare una vigna! Prestigio, attaccamento ai frutti del lavoro comune, tradizione, bisogni religiosi, sorgente di risorse e chi sa, golosità, sono tutte ragioni per le quali i monaci non abbandonano mai senza dispiacere i vigneti, opera delle loro mani e del loro spirito di iniziativa. La produzione (e il conseguente consumo!) portano inevitabilmente i religiosi ad essere intemperanti, con accuse che arrivano, di solito amichevoli, qualche volta anche cattive. Il popolino conosceva i detti che accomunavano i religiosi al prodotto dell’uva: “bere alla cappuccina” (bere poveramente); “bere alla celestina” (bere largamente); “bere alla giacobina” (bottiglia dopo bottiglia); ma “bere in cordoncina”, con allusione alla cintura di corda dei francescani conventuali, significa “vuotare la cantina”.

Quanto vino si consumava, nelle varie abbazie? Nel IX secolo, prestando fede allo storico Castelneau, il consumo pro monaco sarebbe stato di 1.132 litri all’anno. Alla fine del XIV secolo, i monaci dell’abbazia benedettina di Saint-Pierre-de-Bèze ricevevano un litro di vino nei giorni di festa e mezzo litro circa normalmente. Nel 1389, essi ottengono che venga celebrata una Messa per i religiosi morti nel corso dell’anno. Quel giorno, “…l’abate offrirà al monastero un pranzo simile a quello di una domenica, con la grande zimarra e con quattro pinte di vino”, cioè un litro di vino per il pasto! Nel XIV secolo, i religiosi bevevano da due a quattro litri di vino al giorno. Inizialmente, i monaci ricevevano un recipiente, detto “giustizia” (justitia) o “pinta”; si passò quindi a servirlo in “tazze” (tacea) individuali che a Cluny erano di legno, cosa che avrà inorridito i degustatori di tutto il mondo. L’importanza delle razioni variava secondo la gerarchia. Se per il semplice monaco, il fanciullo o il converso cluniacense, era di una giustizia per pasto, la misura raddoppiava per il priore del chiostro. Il grande priore ne riceveva a discrezione alla piccola colazione del mattino. I monaci ricevevano, in alcuni giorni, una razione supplementare chiamata “vino di carità” (l’equivalente della pietanza in tema di cibo).

Infine, le sere d’estate, dopo l’ora nona, il monastero andava in gruppo a bere un sorso di vino nel refettorio.