Il sistema editoriale ci sguazza da sempre: la retorica della “passione” e della “vocazione” che renderebbero irrinunciabile il mestiere del giornalista. Il quale invece si rivela spesso una fabbrica di delusioni. Quasi tutto vero. Lo racconta uno studente francese. Senza spiegare, però, perchè nel frattempo non ha cambiato corso di studi.
Come ogni lunedì mattina, ho aperto il sito dell’Lsdi e mi sono imbattuto in un interessante post: “Giornalista: ma che bel mestiere!“. Una professione intrisa di mistica artificiosa e di retorica strumentale – questo il succo – che esercita sui giovani un fascino fasullo, del quale prima o poi saranno chiamati a pagare il prezzo con lo sfruttamento e condizioni di vita impossibili, nel nome della passione e della presunta “diversità” del loro lavoro.
Difficile non riconoscere in questa descrizione un mondo con il quale ci confrontiamo tutti i giorni e che, per approfondimenti, invito a delibare leggendosi direttamente l’articolo (qui).
Essendo tuttavia il tema attualissimo e imperversando sul web il dibattito, soprattutto da parte di giovani colleghi giustamente smarriti, sul confuso intreccio tra precariato, informazione on line, scarse tutele sindacali e contrattuali, inadeguatezza dei compensi, libera professione, accesso all’albo, abolizione dell’Ordine – il tutto camuffato spesso e abilmente sotto le sembianze di uno scontro generazionale tra “vecchi tromboni” e nuove leve – mi sembra necessario mettere alcuni puntini sulle i.
Perchè se è indubbio il clima di operaizzazione del lavoro giornalistico che si respira nelle redazioni e se è un fatto la progressiva trasformazione del mestiere da artigianato culturale a manovalanza intellettuale, è anche particolarmente sgradevole l’approccio fin troppo ideologico con il quale, da parte di certi settori degli addetti ai lavori, si affronta la questione. Facendo passare in secondo piano aspetti della stessa che a mio parere rimangono la causa principale del disagio generale e della crisi che trasversalmente percorre il presunto “lavoro più bello del mondo”.
Non mi sembra affatto vero ad esempio, come invece si adombra nel commento, di riscontrare tra i colleghi che comandano “il desiderio di immedesimazione di parte del ceto giornalistico con gli strati sociali al potere” e nemmeno di intravedere tra le scrivanie il dominio di una “pedagogia della sottomissione“.
Vedo invece un certo cinismo e una certa rassegnazione, questo sì, frutto di un insieme complesso di fattori. Da un lato l’antica convinzione che gli esterni alla redazione – collaboratori, precari, principianti – siano dei semidilettanti o degli apprendisti che fanno un lavoro diverso rispetto al loro (o che fanno qualcosa che non è ancora un lavoro). Dall’altro la consapevolezza che una selezione di quelli che stanno diventando o saranno colleghi è naturale e inevitabile: il banco di prova saranno anche la capacità di resistenza alla pressione e al superamento delle difficoltà. Da un altro ancora l’insofferenza verso la frequente mancanza di professionalità (e a volte di talento) che questi dimostrano, resa più acuta, ecco il vero tasto dolente, anche dall’aumento esponenziale e progressivo delle persone disponibili a misurarsi con l’attività giornalistica. Una fiumana che si ingrossa giorno dopo giorno, abbassando le soglie tanto della qualità del lavoro quanto delle giuste e possibili rivendicazioni ad esso collegate. “Un discorso – continua il commento dell’Lsdi, che qui condivido – che finisce per sostenere il funzionamento delle aziende editoriali, che hanno bisogno di gente bisognosa, pronta ad azzerare una parte della loro vita privata per la bellezza della loro vocazione”.
Ma da qui ad affermare, come il sociologo francese Alain Accardo evocato nel pezzo, che “i membri della professione sono soggetti nelle scuole di giornalismo a un apprendistato dominato dalla credenza elitista, definitiva e indiscussa che ‘il giornalismo non è un mestiere come gli altri’ e che quelli che lo esercitano non hanno niente in comune con quei volgari ‘funzionari’ pubblici descritti come super puntigliosi sul rispetto degli orari, inclini all’assenteismo e sempre pronti a reclamare il dovuto’’, ce ne corre. Così come appare abbastanza ridicolo sostenere che “’non ci sono mestieri che non si preoccupino, più o meno, di ottimizzare l’immagine della corporazione, non solo agli occhi del pubblico all’esterno ma anche ai suoi stessi occhi’’ e che i giornalisti, più ancora degli altri membri della classe media, sono particolarmente affascinanti dalla ‘’componente più dinamica, più ricca e più influente delle classi dominanti (e possidenti)’’. La volontà di rassomigliare a questa frazione – prosegue- ‘’implica una adesione totale a uno degli articoli di fede della borghesia dominante, che essa è riuscita a far inculcare fino alla base della piramide sociale: la credenza tipicamente repubblicana e meritocratica che solo il lavoro accanito è coronato dal successo, che non bisogna piangersi addosso, che bisogna ‘investire a fondo’ per vincere’’. Ma per favore.
Il pezzo si conclude con l’amara confessione di uno studente di giornalismo che, dopo una massacrante giornata di lavoro in un’emittente radiofonica, maltrattato dai superiori, dice: “Nessuna voglia di prostituirmi per 2,70 euro all’ora“.
Giusto. Primo perchè non è giusto prostituirsi. Secondo perchè non è giusto farlo per 2,70 euro l’ora (ma perchè, a 100 invece sì?). Terzo perchè esistono mille altri lavori pagati meglio. Quarto (questo però l’articolo non lo dice), perchè soprattutto di fare il giornalista, ben pagato o meno, non lo ha ordinato il dottore.
E questo manda in soffitta le fanfaluche sulla borghesia dominante, la credenza tipicamente repubblicana e tutto il ciarpame ideologico agitato davanti agli occhi dei giovani giornalisti, per impedire loro di vedere una verità semplice e lampante: in questo mestiere non c’è posto per tutti. Nemmeno per chi c’è già.