Cos’hanno in comune l’insalata di pastiera del miglior ristorante pompeiano, le suggestioni musicali evocate dai classici e il fascino polveroso del più grandioso complesso archeologico italiano? La risposta potrebbe essere un sottobicchiere verde.

Soundtrack: “A Saucerful of Secrets” (Pink Floyd).

Ho visto la prima volta “Pink Floyd at Pompei” nell’inverno del 1976, al leggendario Universale di Firenze (qui). Fuori c’era il diluvio e noi eravamo sei adolescenti usciti non si sa come da un’appannatissima Daf materna.
L’altroieri, invece, ho rivisto Pompei.
Senza i Pink Floyd, ma dal vero, nella luce radente del tramonto. Con la breccia dell’anfiteatro che scricchiolava sotto i piedi e un vento teso che avrebbe scompigliato i capelli di Waters & co. esattamente come nel film.
Al posto del dinoccolato bassista, un’altrettanto dinoccolata guida con gli occhi da normanno, che di nome fa Mattia e sciorina uno ad uno i nomi degli antichi proprietari delle case sepolte dall’eruzione nel 79 d.C.. Se di cognome non si chiamasse Buondonno potrebbe essere il saggio capitano di un peschereccio appena approdato nel porto. O un produttore londinese uscito dagli studios trent’anni fa e venuto qui per svernare a lungo.
In un paio d’ore ha liquidato la masnada di frettolosi imprenditori cinesi arrivati fino in Campania a soppesare investimenti nel turismo e si è dedicato a noi. Si perde nel primo, secondo, terzo, quarto stile pompeiano. Indica dettagli, descrive dipinti, enumera le tessere dei mosaici, illustra suture architettoniche, individua mura sannite, divinità egizie, vestigia imperiali.
Nel teatro, qualche ora prima, sotto il sole del meriggio, una guida giapponese aveva intonato con voce baritonale “Santa Lucia” per il sollucchero dei compatrioti sugli spalti. Ma nelle mie orecchie sentivo da ore frusciareEchoes” e le note sussurrate di Rick Wright e David Gilmour.
Mentre la massa dei turisti sciama per le vie principali della città antica, quaranta dei quarantaquattro ettari di scavi rimangono pressochè deserti. Ci addentriamo da soli in domus umbratili, guardando negli occhi matrone tristi come i loro bimbi. Mi chiedo quanti dei 5 milioni di piedi che ogni anno calpestano e consumano Pompei escano dai binari dell’ovvio. Biglietto a 11 euro, fanno 27 milioni e 500mila euro di incasso. Poi c’è l’indotto. Alla fine concludi che è la Pompei archeologica a mantenere la città e non viceversa.
Intanto un bastardino sonnecchia sul selciato.
Un randagio? Può darsi. Ma inoffensivo. Ha le medesime sembianze dei cani rimasti sepolti duemila anni fa sotto la cenere e la pietra pomice. Affilati, appuntiti. Nulla che abbia a che fare con il Cave Canem del celebre mosaico appena restaurato lì vicino.
Luigi Scaroina è invece un giovane archeologo che lavora al GPP, il Grande Progetto Pompei (qui) varato nel 2012: 105 milioni di euro di finanziamento comunitario per il restauro, il rilancio, la riorganizzazione e la messa in sicurezza del complesso. Il progetto scade a fine 2015 e forse stavolta ci si farà a spendere (bene) l’80% del budget. Lui poteva fare l’avvocato, invece è qui in jeans e maglietta al cospetto della Venere in Conchiglia che galleggia eterea sul mare verde-blu. Parla e discute, sembra si aspetti che alle sue spalle la Venere sorrida di compiacimento.
Qualche ora dopo, seduto al tavolo del President, i piatti raffinati di Paolo Gramaglia sembrano rovesciare questa prospettiva. I profumi di mare e di polvere portati dal vento nella città antica cedono il posto a quelli del prosciutto di ricciola, delle capesante al sale maldon, degli spaghetti aglio e olio con polvere di taralli. Mattia e Paolo sono amici: se il primo pare un nocchiero, il secondo sembra il sapiente medico di bordo. Laila Gramaglia ha un’aria pompeiana sul viso mentre serve delicatamente il Fiano di Avellino.
Poi i piani lentamente si sovrappongono.
Sulla tovaglia plana l‘insalata di pastiera, una versione disassemblata del celebre dolce partenopeo: l’ovale della crema di ricotta ha la stessa forma del grande anfiteatro e lo stesso colore del pietrisco, gli ingredienti disposti in linea sembrano messi a ricalcare gli strumenti e l’amplificazione dei Pink Floyd sull’arena per il film-concerto del 1972.
Sottobicchiere verde (cit.), flussi di coscienza.
Echoes