Oggi è il Record Store Day, la giornata mondiale dedicata ai negozi di dischi. Luoghi che vanno scomparendo, inghiottiti dalla gdo e dal download. E siccome non posso essere lì, ho scritto questo post. Tra nostalgia e dichiarazione d’amore. Dedicato a chi come me hanno vissuto quell’epopea.

L’appuntamento era verso le 3 del pomeriggio al bar Deanna, a fianco della stazione di Santa Maria Novella. Da lì si prendeva il 32, uno di quei vecchi bus a due piani di un verde reso opaco dallo smog, e, con un viaggio che pareva interminabile, si arrivava a destinazione: Via Torcicoda, zona Isolotto. Per me, arrivato a Firenze da pochi anni, era un punto senza una precisa collocazione geografica ubicato oltre il confine delle mie (scarse) conoscenze della città. Ma anche per i miei amici fiorentini non era molto diverso. Era appunto l’”Isolotto”, forma abbreviata della sottintesa locuzione “negozio di dischi dell’Isolotto”. Allora estrema periferia fiorentina, oggi anonimo quartiere della cosiddetta città metropolitana.
Di quel negozio nemmeno il nome conoscevamo. Lo scoprimmo parecchio tempo dopo, quando il proprietario ebbe cura di farlo stampigliare sulle buste di plastica, prima anonime: Saporetti & Cappelli. E in pratica non se ne conosceva nemmeno l’indirizzo: era semplicemente il negozio davanti alla fermata del bus. Come il titolo di un film.
Strano posto: non si capiva se fosse un negozio di dischi con annesso laboratorio di riparazione di flipper o il contrario. Fattostà che l’ingresso, semibuio, era sempre ingombro di vecchi Gottlieb (naturalmente smontati) che oggi farebbero la gioia dei collezionisti (e mia).
Correva il 1975 e l’aveva individuato per primo, segnalandocelo, il mio amico Andrea. Il motivo? Semplice, aveva un’offerta favolosa: 3 dischi a 10mila lire. I doppi valevano due, naturalmente. Ma per noi, messi fuorigioco da un recente aumento che aveva portato il prezzo del vinile da 3.700 a 4mila lire a pezzo, era un bengodi.
Oddio, bengodi. Con le nostre tasche c’era poco da godere. Per tre che ne compravi, ne lasciavi almeno trenta per i quali avresti dato il cuore. Ma in fondo, forse, visto con gli occhi di oggi, il bello era proprio quello. Andavi lì, compravi, soprattutto guardavi, spulciavi, sognavi. Arrivavi col giorno, tornavi col buio. Stesso bus, il disco nella busta di plastica, l’odore del cellophane sigillato che non vedevi l’ora di aprire e, in attesa di scendere al bar Deanna, interminabili discussioni su come procurarsi i soldi per acquistare gli strumenti (dal prezzo per noi assolutamente inavvicinabile) e mettere finalmente in piedi il complessino rock di cui si parlava da anni.
Fu lì che comprai alcuni dei dischi decisivi per la mia futura carriera di appassionato. Il primo in assoluto fu “Deja vu”, di Crosby, Stills, Nash e Young. Mi ricordo perfettamente la scena e che, per sceglierlo, ci misi ore.
Era il periodo in cui un altro amico, pur di racimolare spiccioli per gli lp, ogni mattina sacrificava le 100 lire paterne elargite per il bombolone dell’intervallo a scuola e le capitalizzava: sei colazioni perdute alla settimana erano seicento lire, che per sette settimane facevano 4.200. Come nella canzone dei quarantaquattro gatti, con il resto accantonato per Ciao 2001. O che per 16,6 facevano le 10mila per l’Isolotto.
Breve zoom cronologico e si passa al 1978. Stessi amici (qualcuno per la verità perso, musicalmente parlando, per strada), qualche decina di dischi in più sullo scaffale di casa, giornali diversi (da Ciao 2001 si era passati al Mucchio Selvaggio), temperie diversissima: si apre l’epoca di Contempo in via Verdi, il primo e forse unico caso a me noto, e comunque irripetibile, di negozio-cenacolo, di punto di incontro, di bar-senza-bancone dove tutti gli appassionati della città, e aspiranti tali, si davano quasi ogni giorno un tacito ma inderogabile appuntamento col rock and roll. I dischi erano passati a 5.500 lire l’uno, quelli d’importazione (cioè il 90% dei miei acquisti) oscillavano però tra le 6.500 e le 7mila.
Bus addio: il negozio – una stanzetta di 5 metri per 5 piena zeppa di vinile e di gente – era in centro e ci si arrivava a piedi, o in motorino. Un po’ perché si era accaldati per la camminata, un po’ perché si era intabarrati e un po’ perché si stava fitti, c’era più caldo d’inverno che d’estate. Giampiero elargiva rari sconti, ma era cordiale, sorridente e accettava di metterci da parte, in una busta riposta sotto la cassa, dischi che sapeva sarebbero rimasti lì per mesi e che non avremmo mai comprato. Non per cattiveria, ma per cronica mancanza di fondi. Chissà perché, si era convinto che mi piacesse il blues e me ne proponeva in continuazione.
Conobbi lì e approfondii l’amicizia con il compianto Ernesto De Pascale e gli altri del giro delle radio locali. Qualcuno è ancora in circolazione. Io stesso e Leonardo (quello dei mancati bomboloni) trasmettevamo artigianalmente in una di quelle che allora di chiamavano ancora “radio libere”. Periodo denso, in tutti i sensi. Mi pare di sentirne i suoni e gli odori. Delle centinaia, l’acquisto fatto da Contempo che ho più impresso rimane il primo: “Live Dead”, introvabile (allora) doppio dal vivo dei Grateful Dead. Disco mitico, con la sua copertina arabescata di soavi ghirigori psichedelici. Era autunno, faceva buio presto. Lo portai direttamente alla radio. E tutto intorno c’era, impalpabile, quell’atmosfera da anni ’70 che Jonathan Coe ha acutamente definito “completamente marrone”.
Mai e poi mai avrei potuto immaginare che, appena dieci anni e alcune migliaia di 33 giri dopo, mi sarei trovato a discutere con qualcuno che, sventolando un cd, diceva: “Il vinile è morto”.
Naturalmente aveva ragione lui. Ma anche torto, visto che continuo a comprare vinili (e cd, ok).
Qualcuno si chiederà però dove voglio andare a parare con questo racconto un po’ melenso e senza capo né coda.
E’ semplice: oggi è il 16 aprile e, in tutto il mondo, si celebra la giornata mondiale dei negozi di dischi. Il Record Store Day. Una giornata di sostegno (e, ammettiamolo, di commemorazione) a quei luoghi che per decenni hanno rappresentato il fulcro, il punto di riferimento (l’unico) della diffusione della cultura musicale, fucina non solo di compratori, ma di appassionati, di collezionisti, di critici, di dj. Insomma di tutti coloro che la musica ha aiutato a divenire ed a restare adulti. Perché era la musica stessa ad essere adulta.
E siccome non posso essere in nessuno di quei bugigattoli rumorosi dove invece vorrei essere adesso, tra beat e amarcord, ho deciso di scrivere questo post.
E’ dedicato a tutti quelli che con me hanno condiviso quei pomeriggi, quegli ascolti, quelle letture, quelle chiacchierate. O che anche solo comprendono, avendole vissute loro stessi, le cose di cui sto parlando.
Non ci crederete, ma mentre ero a metà del pezzo e stavo scrivendo esattamente di lui, mi ha chiamato Andrea. Quello che per primo scoprì il negozio dell’Isolotto. E a cui un terzo di secolo dopo ho fatto da testimone di nozze.
Sarà un caso, ma il cerchio si chiude.