Per conoscere bisogna studiare. Studiare con passione e sacrificio. Ma certe lezioni faticosamente apprese da adolescenti rimangono impresse per sempre. Tipo i solchi degli Yes compulsati uno per uno nel 1975. Come nella “Banda dei Brocchi” di Coe.
Soundtrack: “Close to the Egde” (Yes).
Per essere sicuro, ho controllato: è davvero il numero 7.
Il numero 7 della mia collezione di dischi, nel senso di LP, quelli veri, in vinile, che ora sono migliaia.
Ma quello era solo il settimo.
Eppure i miei amici mi guardavano con ammirazione, perchè ero “espertissimo” e di dischi ne avevo “tanti“. Cioè più di loro.
Ce ne fu uno che, travolto da un’improvvisa disponibilità di denaro, per un po’ mi superò. In classe, la mattina, tra l’incredulità generale annunciò di essere arrivato, nell’ombra, a quota 14. E poi addirittura a 19. Smarrimento collettivo. Ma poi fu lentamente quanto inesorabilmente rimontato e superato.
Fattostà che quel settimo disco della serie era “Close to the edge” degli Yes. Con gli occhi di oggi, un classico. E un piccolo classico già allora. Copertina verde intenso che sfumava nell’oscurità, simulando una cascata amazzonica che sprofonda nell’abisso. Dentro, l’opposto.
Lo comprai, dopo il consueto e ponderatissimo investimento (i calcoli, come del resto l’accumulo dell’ingentissima somma necessaria, duravano a volte mesi: un lp costava 4.000 lire e un bombolone a scuola costava 100 lire, quindi c’era chi rinunciava a quaranta colazioni, ovvero sette settimane di digiuno), un pomeriggio di primavera. Anno 1975.
Quello di cui voglio parlare non è però l’amarcord, anche un po’ stucchevole, di quei tempi pur eroici.
Bensì dell’horror vacui che coglieva chi, come me, praticamente digiuno di un reale retroterra di ascolti e ricco solo di molta teoria appresa stando curvo sui libri e le riviste specializzate, comprava un sudatissimo disco e aveva, lì per lì, la sensazione che “non gli piacesse”.
Difficile descrivere la sensazione di impotenza, di terrore, di sconforto, di pentimento.
Primo pensiero: com’è possibile che non mi piaccia? In verità era perfettamente logico, considerato che si trattava spesso di suoni del tutto nuovi, i quali non è che “non piacessero”, erano solo assolutamente desueti al mio orecchio vergine.
Secondo pensiero: e ora? Il danno economico era terrificante, come se oggi scoprissi di aver comprato a peso d’oro una villa costruita sul fianco di una collina che ineluttabilmente frana a valle.
Terzo: sono io a essere un cretino che non capisce nulla di musica. Seguiva caduta verticale e durevole dell’autostima di esegeta musicale.
Quarto: lo sapevo, accidenti a me, che dovevo comprare “Acquiring the taste” dei Gentle Giant.
Dopo aver fatto compiere al disco il terzo, inutile giro di ascolto sul mio terribile stereo Lesa, e rimasto ancora una volta poco convinto, misi il vinile sotto il braccio e andai a piedi (no motorino, va da sè) proprio da quell’amico che tempo dopo mi avrebbe (temporaneamente) superato per numero di LP posseduti.
Lo trovai intento a montare le luci psichedeliche sul super hifi sul quale il padre ascoltava la musica lirica (!).
Seduti lì, in poltrona, ascoltammo trasognati più e più volte “Close to the edge” tra le lucine che lampeggiavano. L’effetto luminoso era patetico, ma a noi pareva ganzo. Il sintetizzatore di Wakeman, gli arpeggi di Howe, il basso di Squire e la voce acuta di Anderson. Io simulavo una tronfia soddisfazione da intenditore, lui ascoltava e basta. A fine pomeriggio, le parole di ammirazione eguagliavano la sostanza della mia disperazione.
La sera, nella mia cameretta, disteso sul letto riflettei attentamente sul passo falso e conclusi che tra i pensieri dell’immediato quello giusto era stato il n°3: non capivo nulla di musica e dovevo studiare.
Mica il greco: la musica. Così studiai. Il disco. Per giorni, pomeriggi, notti intere. Mi applicai indefessamente, ne colsi ogni piega.
Un mese dopo conoscevo a memoria tutti i complessi passaggi di batteria di quei trentasette minuti di vinile.
Lezioni che non ho più scordato.
Dietro ai tamburi c’era Bill Bruford. Lo considero ancora il più grande batterista rock di tutti i tempi. Anche meglio di Keith Moon, che è il secondo.
A quei tempi non scrivevamo ancora recensioni di dischi, ma (di nascosto) avremmo cominciato presto.
Se lo avessimo fatto, più o meno sarebbe stato così, come in quel capolavoro generazionale che è “La Banda dei Brocchi” di Jonathan Coe.