di URANO CUPISTI
Vecchi appunti da una Ulan Bator ancora incrostata di URSS e appena avviata al modello socioeconomico “cinese”: bocche cucite e marcette militari da cui, nonostante tutto, cominciava a riaffiorare il misticismo rimasto nascosto per 70 anni sotto la sabbia del deserto.

 

Nell’immaginario collettivo l’antica Via della Seta si chiama così perchè Marco Polo la percorse come itinerario verso Oriente, nella seconda metà del tredicesimo secolo. Ma non è vero.
Fu Ferdinando von Richthofen, geologo tedesco e appassionato geografo, nonché viaggiatore incallito, che in un libro, nella seconda metà del ‘800, parlò per la prima volta di Via della Seta intesa come rete di vie commerciali, con itinerari differenti dovuti ad eventi storici diversi.
La suggestione di queste rotte è rimasta immutata nel tempo e tutt’oggi affascina qualsiasi vero viaggiatore, colui che cerca.
Anch’io ne sono stato colpito, direi travolto fin da piccolo.
E sempre da piccolo, nel dare spazio alla fantasia, creai la mia personale Via della Seta. Nella pagina dell’Atlante De Agostini con la planimetria dell’intero continente asiatico, una linea marcata con lapis n. 2, quello più forte, segnava il mio sogno: Kazakistan, Uzbekistan, Samarcanda, Bukhara, Tagikistan, Kirghizistan, Urumqi, Ulan Bator, fino a Pechino.
Un desiderio rimasto a lungo nel cassetto anche perché era impossibile, fino a trent’anni fa, organizzare una simile viaggio. L’allora cortina di ferro impediva il passaggio da una sepubblica sovietica all’altra.
La caduta del muro di Berlino, nel 1989, illuminò di nuovo le speranze di realizzare il sogno.
Ormai più che adulto, decisi di percorrere la mia Via della Seta in periodi diversi visitando, come nella tessitura di una tela, i singoli paesi per conoscere meglio usanze, costumi, tradizioni.
Ebbi il visto dall’Ambasciata in Svizzera (in Italia ancora non c’erano relazioni diplomatiche, se non un Ufficio a Trieste dedito agli scambi commerciali) e nel 1996 affrontai il primo viaggio del delicato filo di seta: la Mongolia.
Se c’è stato un viaggio per cui tornare indietro nel tempo ha avuto un senso, sicuramente è stato proprio questo.
A partire dalla realtà di una città, Ulan Bator, con i palazzoni sovietici al centro, la piazza per le parate militari e baracche nella periferia, con la centrale elettrica a carbone facente parte dell’arredo urbano e simbolo del collettivismo imposto dal regime.
Un po’ come entrare in una casa tutt’altro che accogliente, sottosopra, abitata da chi non vuole ricevere nessuno.
Giravo nelle vie del centro, osservato come un alieno, accompagnato da una guida messami a disposizione dal neonato ufficio turistico: Medgui, ovvero “Non So”. Mai nome fu così azzeccato. Inutile fare domande sull’attuale regime. C’erano risposte solo sui trionfi dell’Armata Rossa e su Gengis Khan.
Certo la Mongolia dei miei sogni di ragazzino non era quella. Ulan Bator era una delle città più inquinate al mondo per l’uso del carbone come combustibile per il riscaldamento, con strade sterrate, centri culturali ancora segnati dai simboli sovietici, i figli della nomenklatura in divisa con tanto di stelletta rossa sui cappellini che marciavano, con cadenza militare, per andare a scuola.
Sotto l’influenza sovietica e fedele alleata dell’URSS, la Mongolia è stata a lungo una Repubblica Popolare (cioè comunista) formalmente indipendente, con un proprio parlamento. Al momento del mio viaggio iniziava l’avvio verso un’economia di mercato libero, se pur con organizzazioni controllate dallo Stato, insomma il modello cinese.
Dal 1921 in poi tutto il territorio ha subito l’epurazione di qualsiasi tipo di religione, con la distruzione di templi antichissimi. I monaci buddisti furono sterminati. I pochi templi rimasti sono stati salvati dalla sabbia del deserto, che li ha tenuti nascosti insieme ai libri sacri.
Nelle vicinanze della capitale ne visitai uno in fase di restauro, Dashchoiling, miracolosamente salvato dai seguaci del Dalai Lama che ne fecero perdere ogni traccia grazie alla vicinanza del deserto sabbioso.
Riaperto al culto, con la presenza di giovani monaci, era diventato nuovamente meta di giornalieri pellegrinaggi, a dimostrazione del non domato, nonostante la rivoluzione culturale, antico, radicato e profondo misticismo dei mongoli.
La mia personale guida mi invitò ad addentrarmi all’interno di quello che ho definito un mondo dentro un altro. “Sono certo che gli dei vivono qui“, ebbi a dire rapito da quella devozione.
Per “punizione” mi toccò sorbirmi un pomeriggio intero, al Palazzo dell’Opera e del Balletto, di marce militari del popolo eseguite dall’ancora esistente Orchestra dell’Armata Rossa Mongola, con strette di mano ed inchini finali a generali in alta uniforme con una serie di medaglie sul petto. Ad uno, il generale dei generali, sulla divisa ne contai 42.

Cosa c’era prima del 1921? Secondo il regime, nulla di meritevole di essere conosciuto. Al massimo, facendo un disinvolto salto all’indietro di milioni di anni, si poteva dare un’occhiata al Museo di Storia Naturale, che era comunque interessante. C’era il fossile dell’antenato T-REX, maestoso scheletro del dinosauro rinvenuto intatto nel Deserto del Gobi. Ma i vetri delle teche erano molto sporchi, gli animali impagliati e impolverati mi rattristarono subito.
Del resto, tutto aveva un senso: non avendo essi avuto alcun ruolo nell’emancipazione culturale rossa del popolo mongolo, erano considerati poco più che un passatempo per turisti.

Insomma, il mio sogno da bambino si stava traformando nel risveglio deludente del viaggiatore adulto.

Fuggii da quella gabbia urbana dopo quattro giorni.

Ma il filo setoso che stavo seguendo era ancora lungo…

(continua)