Passata la sbornia per un successo in effetti inatteso, si aspetta di vedere se fu vittoria vera o di Pirro. Era importante affermare il principio, ma i toni trionfalistici mi paiono ingiustificati e la strada da fare ancora lunghissima. E speriamo soprattutto che il beneficio non giunga postumo.

Per una volta la fortuna, oltre al valore, è stata dalla nostra. Cioè dei giornalisti “autonomi“. E contro ogni (mia) previsione, la legge sull’equo compenso è andata in porto.
Lo ammetto: dire “dalla nostra” mi fa un po’ specie, perchè è difficile stabilire chi siano i nostri, o meglio i miei, in un contesto giornalistico contraddistinto dalla più assoluta disomogeneità professionale, anagrafica, tipologica e contrattuale.
Ma supponiamo che i “nostri” esistano.
Tempo addietro mi lanciai (qui) in un’ardita metafora, immaginando che le terga del giornalista, per sentirsi al sicuro, dovessero appoggiarsi su una sedia dotata, sempre per esigenze di stabilità, di quattro robuste gambe. Una di queste era il principio (sottolineo principio) dell’equo compenso. Le altre erano quella deontologica (la Carta di Firenze), quella professionale (l’Odg) e quella sindacale (omissis).
Bene: la Carta c’è ma è in rodaggio, l’Ordine c’è pure lui (ma controlla poco e “fabbrica” troppo), la Federazione come al solito simula di fare ciò che non può, non sa e forse non vuole fare.
Ora è arrivato anche l’equo compenso e, aldilà dei suoi effetti pratici (per ora nulli), si tratta a mio parere di un risultato importantissimo, perchè il provvedimento ha la funzione del proverbiale sasso gettato nelle limacciosissime acque del nostro sistema editoriale.
Occorre però che le acque medesime non tornino subito piatte e stagnanti.
Cosa che potrebbe accadere se, col governo traballante, non si potrà dare applicazione alla norma che prevede, entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, l’istituzione della Commissione per la valutazione dell’equo compenso, che dura in carica 3 anni e ha sede presso il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri. La commissione, di 7 membri, è presieduta dal Sottosegretario all’editoria e deve definire il compenso equo entro due mesi dal suo insediamento, valutate le prassi retributive. Nello stesso termine, la Commissione deve redigere un elenco delle testate che ne garantiscono il rispetto. A decorrere dal 1 gennaio 2013, la mancata iscrizione in tale elenco per un periodo superiore a sei mesi comporta la “decadenza dall’accesso” ai contributi in favore dell’editoria. Lo stesso articolo prevede che il patto contenente condizioni contrattuali in violazione dell’equo compenso sia nullo. L’articolo 4 dispone infine la presentazione alle Camere di una relazione annuale sull’attuazione della legge.
Di asini, è facile capirlo, ne potrebbero cascare parecchi.
E non a caso i commenti critici, accanto a quelli trionfalistici (in fondo la campagna elettorale per l’OdG è cominciata, no?), si sono sprecati. Composti, scomposti, surreali, sconcertati, allarmati, ragionevoli, ponderati.
Se ne trova un ampio campionario in calce al post che l’informato collega Antonello Antonelli ha dedicato giorni fa (qui) all’argomento.
E un altro piuttosto sferzante sul blog (qui) dell’amico Vittorio Pasteris.
La cosa che adesso a me dà particolarmente fastidio sono gli ingenui epinici di chi si illude che la legge sull’equo compenso, ben lungi da approdare a qualcosa, sia la soluzione dei cronici problemi di precarietà, sottoprofessionalizzazione e sovrabbondanza che da almeno un ventennio affliggono la categoria.
Equo compenso, sempre ammesso che se ne raggiunga uno, fuori dall’eufemismo vuol dire infatti brusco e sensibile rialzo dei corrispettivi (del resto attualmente tendenti allo zero) e quindi l’immediata espulsione dal mercato di tutti quelli che l’editore non riterrà “valere” la somma imposta. Altro che “più soldi per tutti”. Vuol dire anche spostare sulla “commissione” (e sulle pressioni a cui essa sarà sottoposta) l’onere di fissare le tariffe e di interpretare, terreno scivolosissimo, le “prassi retributive“, con il rischio di partorire un tariffario di fatto del tutto inadeguato ai mille rivoli nei quali si dipana una professione complessa come la nostra. La quale non è affatto costituita, come invece si tende a pensare, dalla sola produzione cottimistica di articoli per i piccoli e i grandi quotidiani.
Con l’aggiunta, poi, di una possibile beffa finale, più sottile e grottesca, che si profila all’orizzonte.
La seguente: poichè la sanzione prevista per l’editore è la sola “decadenza dall’accesso” ai fondi pubblici dell’editoria in un periodo storico in cui è presumibile tali fondi vadano a scomparire o a ridursi drasticamente, c’è il rischio che la norma resti di fatto senza sanzione e che, invece, gli editori non sovvenzionati dallo stato possano continuare a fare esattamente quello che fanno oggi.
Ovvero servirsi di volontari i quali, loro sponte, gli forniscono praticamente gratis i contenuti per le loro pubblicazioni.
Ma allora di che staremmo parlando?
Insomma, equocompensiamoci in pace, ma non facciamoci illusioni.
La sopravvivenza resta un problema.