di URANO CUPISTI
Oltre mezzo secolo fa, nell’isola tunisina degli odierni villaggi-sventura le cose erano parecchio diverse.

 

Il primo viaggio in assoluto che ho fatto con mio padre (ormai lo sapete: era direttore di macchina sui grandi mercantili e ogni tamto mi portava con sè) fu nel 1954. Avevo otto anni e comprese Marsiglia, Tunisia, Libia.

La Tunisia fu insomma il secondo suolo straniero che calpestai. Il tempo limitato alla permanenza della nave nel porto di Tunisi mi permise di visitare, oltre la capitale, le rovine di Cartagine.

Mi colpì, nell’occasione, un poster in un caffè adiacente al porto: era l’immagine aerea dell’isola di Djerba, l’isola bianca. Un’immagine che non dimenticai.

Al punto di tornarci da grandicello, nel 1970, quando ancora comunque non era stata invasa dai vacanzieri e i club oggi tanto negativamente frequenti nelle cronache erano lontani dall’essere costruiti. Tant’è che gli amici, saputo delle mie intenzioni, subito mi chiesero: “Perché a Djerba, un’isola piatta dove non c’è niente di storico o di scenografico da vedere?”.

In cuor mio sapevo invece che sarebbe stato un viaggio emozionante, ricco di fascino “arabo”, stupefacente e straordinario.

Su di me era innanzitutto irresistibile la fascinazione omerica: fu lì che Ulisse gustò i fiori di loto. Fu lì che, poi, i Cartaginesi fondarono la strategica città di Meninx, costruendo la strada che la collegava alla terraferma successivamente consolidata dai Romani e tutt’ora utilizzata. La Sinagoga Griba, una delle più antiche al mondo, era la testimonianza della comunità ebraica di allevatori molluschi dai quali si ricavava la porpora. E c’erano i segni lasciato dai dominatori succedutisi nel tempo: Normanni, Aragonesi, Turchi, Spagnoli con le rispettive religioni.

Quando ci tornai, pieno di aspettative, Djerba mi si presentò mediterranea e sahariana al contempo, coi suoi placidi villaggi, i vecchi pozzi, le piccole moschee sperdute in piena campagna, le grandi menzel, le fattorie insomma. E ovviamente le spiagge bianche.

Altro che niente da vedere.

Valeva la pena di andarci anche solo per camminare per le stradine di Houmt-Souk, il capoluogo, che allora aveva circa 15.000 abitanti, anche se nei souk l’artigianato locale già principiava a essere contaminato da mercanzie made in Taiwan, Indonesia e Giappone.

Nei caffè lungo il porto la bevanda era solo alla turca e si consumava al tramonto, quando la brezza del Mediterraneo mitigava l’afa sahariana del pomeriggio. Momenti che da soli valsero il viaggio. Ma ricordo bene l’emozione delle visite alle menzel con le loro alte mura, le torri d’angolo, le volte e le cupole che emergevano lungo le piste sabbiose dirette a Djerba. Erano dimore autarchiche dove famiglie allargate vivevano in completa autonomia grazie all’acqua dei pozzi, gli olivi e la terra coltivata nei dintorni.

Poi c’erano i fondouks, cioè i caravanserragli destinati al deposito delle merci in transito. Una guida mi spiegò che erano pronti i progetti per trasformarli in hotel e ristoranti. Io, per fortuna, li vidi ancora “in originale”. Come ancora relativamente originali erano le botteghe dei vasai, che producevano le grandi giare tradizionali usate fin dall’antichità (ma non erano le stesse dei cartaginesi, come la solita guida cercava di farmi credere al solo scopo di appiopparmene una).

Era insomma una Djerba che aveva forse i germi di quella che sarebbe diventata, ma nulla di più. Ho ancora stampate nella memoria la visione delle grandi lagune, ideali per fotografare l’assembramento di uccelli migratori, ovviamente degli infiniti arenili che si perdevano all’orizzonte e il panorama di passeggiate interminabili.

Di tutto ciò, oggi non c’è più traccia o quasi. Alle disavventure dei moderni vacanzieri ho già accennato. Anche in questo l’isola si è omologata.

Per fortuna, ho molti sogni da ricordare.