Si etichettano al plurale: resistenze contadine. Sono agricoltori “contro”. Contro cosa? Contro tutto: la burocrazia, l’Ue, le multinazionali, la gdo. Predicano il ritorno all’agricoltura quotidiana, manuale, diretta. Da km zero a zero km. Vendono i loro prodotti ai mercatini. La qualità? Se la “autocertificano”. Sulla praticabilità del progetto economico ho dei dubbi. Ma non su quella del progetto di vita. W i combattenti.

Non ho difficoltà ad ammettere che, d’istinto, starei coi rivoluzionari della zappa. Con quelli, cioè, che riunirti in manipoli di battagliere microassociazioni vagheggiano la rivoluzione contadina, il ritorno alla campagna dura e pura, ricca di piaceri georgici e finalmente libera dalle stucchevolezze bucoliche da spot tv. Coi fautori di una sobrietà profonda, esistenziale, che, in fondo, è alla radice stessa della natura delle cose, tutte: vera, diretta, senza fronzoli, niente affatto priva di sfumature però, anzi, variegata, screziata, pluralista ma autentica, politicamente scorretta quando serve, perfino rude o triviale. Viva. E tutt’altro che materialista.
Per questo mi è piaciuto anche il ritratto che oggi, sul corriere web (qui), ha fatto Luisa Pronzato del movimento dei genuini-clandestini. Quegli agricoltori (spesso “di ritorno”: ex insegnanti, ex precari, gente che ha cambiato vita), insomma, che predicano la dittatura dell’orto di casa e l’alleanza tra contadini e cittadini per riappropriarsi della produzione, il commercio e il consumo delle derrate agricole, rompendo il giogo della grande distribuzione e delle multinazionali che fanno il bello e il cattivo tempo sul mercato planetario del cibo, la rete dell’agroindustria, l’eurocrazia agricola.
Si scelgono slogan e parole d’ordine creativi, queste nuove vestali dell’agricoltura: “Cicoria Democratica, “Campi Aperti” e così via. Come pure sanno scegliere tecniche di comunicazione accattivanti: l’ultima è un documentario autoprodotto con l’aiuto dei media-attivisti amici. Titolo: “Genuino clandestino”, appunto. Una genuinità senza bollini, enti di controllo, protocolli di produzione: loro, gli ortaggi, se li autocertificano.
Autarchici, con una spruzzata di fanatismo ideologico che alla fine non guasta, pochi quanto basta per essere al sicuro dal facile consenso di massa, molto pratici e poco teorici, hanno tutto per essere simpatici a chi, come me, predica l’austerità come modello di vita.
Solo che, rispetto a loro, posso vantare (e al contempo rammaricarmi) di un briciolo di cinismo in più. E quindi il diritto-dovere di pormi qualche domanda, di farmi venire qualche dubbio.
Guardo fuori dalla finestra e vedo il mio orticello da hobbista, un po’ spelacchiato ma “vissuto”: pomodori, zucchine, qualche cipolla. Genuino? Non c’è dubbio, l’ho piantato io e lo innaffio a mano tutti i giorni con l’acqua piovana. Trattamenti zero, pesticidi zero, concimi zero. Solo vanga e terriccio.
Però mi chiedo: e le piantine da dove venivano? Le ho comprate al mercato, chissà. E l’acqua? Viene dal cielo, come potrei autocertificare che non contiene sostanze tossiche? Io l’ho solo raccolta. Insomma, qualche certezza si incrina.
Poi penso al batterio killer. Il caso è esploso vicino ad Amburgo. Sembrava un problema tedesco e invece hanno dato la colpa ai cetrioli spagnoli, poi rivelatisi innocenti, quindi ai germogli di soia che provenivano comunque da un paese lontano. Alla fine si è scoperto, pare, che la responsabilità era di un certo fieno egiziano importato dalla Grecia. Per farla breve: in un mondo globalizzato, ipercorrelato, iperconnesso, dove tutto – gente, malattie, prodotti, germi – circola a velocità fino a vent’anni fa impensabile, mosso dal motore combinato della tecnologia e del commercio internazionale, in un melting pot costante, il “locale” non esiste più. Tranne forse in Antartide o in sperdute valli himalayane. Tutto è (inconsapevolmente) contaminato o contaminabile.
A che serve allora l’autocertificazione dei genuini-clandestini?
Tecnicamente, geneticamente, sanitariamente parlando, senza dubbio a nulla.
E’ dunque inutile?
No, tutt’altro. Si tratta di una scelta esistenziale, di uno stile di vita. Per la scienza, vale zero. Ma forse, antropologicamente, vale ancora qualcosa. Per la quale continuo a simpatizzare.