L’imminente edizione del Dig.it pratese sul giornalismo digitale pone come sempre sul tavolo questioni teoriche interessanti. Ma mai quante ne pone la cronaca della professione reale. Allora ho preso un po’ di notizie che paiono slegate tra loro, ma in realtà convergono. E mi sono chiesto…

 

Venerdì 21 e sabato 22 ottobre prossimi, a Prato, c’è Dig.it, il salone del giornalismo digitale.
Un appuntamento ormai classico che certamente non mancherò, sebbene per me esso sia da sempre, oltre che una fonte di aggiornamento, anche il motivo di alcuni travasi di bile.
Salto a pie’ pari tutto il pregresso e la polemica, a mio parere obsoleta (ma non altrettanto per molti), sul ridicolo quanto presunto contrasto tra giornalismo digitale e giornalismo cartaceo. Come se per praticare l’uno o l’altro non si dovesse, prima, essere comunque giornalisti e soprattutto non si dovesse saperlo fare. E mi concentro, as usual, a prendere atto di alcuni fatti concomitanti e convergenti che, a mio parere, aiutano a mettere meglio a fuoco certi temi di persistente attualità nella nostra professione.
Procedo in ordine cronologico.
Primo fatto. Una settimana fa sul sito dell’Inpgi compariva la notizia, poi rilanciata sui siti di OdG e Fnsi, che, secondo il Tribunale di Roma, “informare tramite blog equivale all’attività giornalistica“. Rimando al link per il dettaglio, ma ciò che mi interessa è la motivazione: “…il giornalista svolge una complessa attività di natura intellettuale, volta alla diffusione di notizie tramite vari strumenti di comunicazione (nei tempi recenti la notizia viaggia oltre che mediante tradizionale giornale cartaceo, anche attraverso la radio, la televisione, da ultimo, anche via internet) sicché l’attività stessa può atteggiarsi diversamente a seconda dello strumento di diffusione utilizzato…il blog è un contenitore di commenti in merito alle notizie già note e aliunde divulgate al pubblico” e pertanto è uno strumento che ”comporta elaborazione e diffusione della notizia, ciò che è proprio del giornalista (essendo irrilevante il fatto che le notizie elaborate e diffuse siano eventualmente già note)”. Il caso riguardava due giornaliste che avevano svolto attività consistente nel coordinamento di 400 blogger di una testata on line e nella gestione della pubblicazione di notizie su social network con modalità e caratteristiche per cui era ravvisabile la natura subordinata e giornalistica.
Mi pare che dalla sentenza si ricavino tre certezze: 1) è giornalismo coordinare l’attività dei blogger e organizzare, cernire e titolare le notizie che essi riportano; 2) il blogger non è giornalista (quindi il blog non è giornale, a meno che non sia registrato come tale), ma è casomai fonte dei giornalisti, 3) avere un blog o scrivere su un blog non è di per sè attività giornalistica, nè pertanto può costituire titolo per ottenere l’iscrizione all’albo professionale.
Sono cose che penso da sempre, ma trovarle scritte su una sentenza dà un certo conforto.
Secondo fatto. Al TTG, il salone del turismo di Rimini che si è tenuto la scorsa settimana e che nell’edizione 2015 aveva dedicato ai blogger spazi e accoglienza principeschi, quest’anno tutte quelle attenzioni non si sono ripetute. Mancanza di sponsor, dice qualcuno. Sarà. Ma allora chiedo: perchè sono mancati gli sponsor? A mio parere la risposta è semplice: perchè il settore non offre più quelle opportunità di visibilità a buon mercato e ad ampio raggio che prima gli si attribuivano. Traduzione: la bolla del blogging si sta sgonfiando. Troppa offerta polverizzata, troppi dilettanti allo sbaraglio, troppa reclame da due soldi offerta a un pubblico di bocca buona. Il mondo della comunicazione turistica via blog, mi diceva uno che la sa lunga in materia, si è ormai spaccato: di qua i pochi di successo, che per partecipare a un evento o per scriverne si fanno precedere da un robusto preventivo per compensi e nota spese, di là una marea di mezze figure che elemosinano inviti e sottolineano che li accettano “anche gratis“. Nel mezzo, aggiungo io, quelli che si stanno rendendo conto che gestire un blog con contenuti spendibili è cosa impegnativa e che, per avere facile popolarità e fare qualche marchetta, si fa prima a presidiare con assiduità il proprio account sul più grande blog collettivo del mondo: Facebook.
Terzo fatto. A riprova di quanto sopra, ecco che qualcuno cerca di trarre vantaggio dalle difficoltà dei boccheggianti blogger di serie B (o sugli aspiranti blogger in ritardo sui tempi). E gli propone, a pagamento si capisce, “corsi professionalizzanti” tendenti a insegnare loro come “vendersi” meglio, insomma come trovare gente che li paga per fare pubblicità e, così (visto che si parla di turismo), “viaggiare sponsorizzati“. Insomma, dopo i manuali della marchetta sono nati i corsi della medesima.
Marchetta che però se, vedi fatto primo, fosse contenuta in un blog-testata o fosse coordinata da un giornalista darebbe vita a un gustoso cortocircuito deontologico di cui sarebbe divertente occuparsi.
Quarto fatto. Sulla newsletter di Dig.it arrivata proprio stamattina leggo che sabato 22 ottobre dalle 10 alle 13, presso l’auditorium della Camera di Commercio di Prato, si terrà un tavolo di lavoro sul “Giornalismo dalla pratica alla teoria” tenuto da Sergio Ferraris.
Interessante. Ma le premesse mi inquietano. Tra le citazioni introduttive al dibattito leggo questa: “I giornalisti oggi subiscono la mutazione del giornalismo e non la guidano. In uno scenario in continua trasformazione pratiche consolidate e assodate diventano obsolete in batter d’occhio, figure professionali fino a poco tempo fa indispensabili sono cancellate. E i giornalisti, nonostante siano ancora ai vertici della filiera editoriale, non riescono a guidare questi processi. In primo luogo non c’è l’abitudine, da parte dei giornalisti, di ragionare sul proprio lavoro in termini industriali, cosa che hanno sempre demandato agli editori, ma soprattutto c’è un’arretratezza generale nel capire come le tecnologie stiano cambiando tutto il lavoro giornalistico“. Sull’arretratezza concordo, ma sulla necessità di ragionare “in termini industrali” proprio no. Mi sembra la solita vasellina per tentare di far passare l’idea che la professione, per sopravvivere e far sopravvivere, soprattutto, la sua funzione di informare con indipendenza, debba diventare impresa. Il modello nemmeno troppo dissimulato è quello del “giornalista-imprenditore” che, anzichè grazie ai compensi professionali, campa grazie agli utili della propria azienda. In pratica diventando editore o agendo (“pensando“) come tale. Cosa legittima, per carità, ma niente affatto giornalistica. E anzi in contrasto palese con l’essenza stessa del giornalismo.
E allora proviamo a tirare le fila.
Da un lato chi ha un blog non è nè può fare il giornalista, ma il blog, il web e tutte le loro ambiguità sono la strada sempre più battuta da chi giornalista vorrebbe diventarlo o prova a spacciarsi per tale. Dall’altro, siccome i giornalisti, e figuriamoci i finti giornalisti, oggi non guadagnano, proliferano i tentativi di trovare una strada per rendere redditizia l’attività: o in termini di baratto (“tu dare viaggio o aspirapolvere o vestito e io scrivere articolo“) o in termini di attività imprenditoriale. Ma poichè la coperta logica è corta e i discorsi non tornano, si prova a elaborare una nuova teoria del giornalismo che parta dalla “pratica” che abbiamo appena descritto.
Non vedo l’ora di andare a sentire cosa dirà Sergio Ferraris.
La speranza è che qualcuno abbia il coraggio o di stilare il certificato di morte della professione già sancito dai fatti e smetta di girarci intorno a colpi di eufemismi, o di proporre qualcosa spiegando prima con chiarezza da quale pratica voglia partire.