Non brandelli d’esistenza, ma quelli che uno scrive. Col Covid-19 non serve chiedersi se ne vale la pena: quanto si può resistere “on the road“? Prima, se non strutturati, poco. Ora, nulla. Lo dicono la “Cronista Furiosa” e io, nel servizio di Cristiano Tinazzi su Rsi.

 

A proposito di freelance, ieri sono uscite due cose interessanti.

In un post (qui) di Senza Bavaglio, la corrente dell’Fnsi (ahi!…) da sempre più esposta sul fronte dalla libera professione, una “Cronista Furiosa” descriveva abbastanza realisticamente la difficile vita del freelance, tra ansie professionali e non, promesse non mantenute, alte pretese e nessun riconoscimento nè economico, nè personale.

E concludeva così la sua geremiade:

Il pezzo esce, qualche volta col titolo sbagliato, qualche volta mal impaginato, ma esce, il tuo lavoro è finito, riceverai qualche decina di euro molto tempo in avanti, tra qualche mese. Se il testo viene tagliato, sarai pagato per la lunghezza che esce. A fare un breve calcolo di quanto hai guadagnato con tutte le ore che hai speso, il guadagno orario è una miseria. Ma lo è soprattutto a fronte dello stress enorme accumulato“. Infine, la classica domanda: “Ne vale la pena? Ancora non ho capito”.

Il punto è questo. Anzi, lo era. E la risposta purtroppo era facile: non ne vale la pena.

Poi, sempre ieri, sulla Radio Svizzera Italiana è uscita una bella inchiesta di Cristiano Tinazzi, (tra le voci ascoltate, anche quella del sottoscritto: grazie al collega) sulle conseguenze della pandemia sul lavoro dei liberi professionisti dell’informazione: “Il Covid-19 sta cambiando le nostre vite, modificando anche il nostro modo di lavorare. Il crollo delle inserzioni pubblicitarie, l’annullamento di eventi sportivi e culturali, le difficoltà logistiche, hanno minato tutta la filiera di produzione dei media nazionali e internazionali. Una esplosione a catena in una situazione di crisi profonda e recessione che andrà a ripercuotersi con tagli drastici a costi e contributi esterni e che colpirà figure come collaboratori esterni e giornalisti freelance“. Ne è uscito un quadro vivido e realistico della situazione, raccontata da chi la vive “sul campo”.

La conclusione (non facile da far compendere alle nuove generazioni, mi spiace dirlo) è che non vale tanto la pena di dannarsi per un articolo in sè, che può nascere anche da mille altre motivazioni concomitanti, ma di mettere in fila, uno dietro l’altro, tutti gli articoli come i giorni di un calendario. Riducendosi alla fine a vivere, attraverso di essi, appunto alla giornata.

In ogni ramo, e il giornalismo non fa eccezione, il libero professionista per campare con ragionevole tranquillità ha bisogno di programmazione, di una maglia organizzativa e di rapporti che gli funga da rete di sicurezza. Necessita, proprio nella strutturale discontinuità del suo lavoro, di continuità. In modo che l’imprevisto non sia sempre drammatico e che il lavoro non sia così una continua emergenza.

Senza questa forma di autorganizzazione – albo professionale, previdenza, partita iva, pluralità di committenti, assicurazione infortuni e rc, ricchezza di relazioni, rapporti con colleghi e istituzioni giornalistiche, consulenti legali e fiscali seri e capaci, etc (per decenza non nomino il sindacato), flussi di liquidità – il freelance rischia di consumare la propria vita on the road e di sprecare la gioventù e le sue energie migliori in un sistema che, quando avrà necessità di alzare il livello delle proprie sicurezze, finirà per stritolarlo.

It’s a goddamn impossible way of life. No question about it”

(Robbie Robertson, The Band, fotogrammi finali di “The Last Waltz“)