Sulla questione aleggiano equivoci strumentali legati al fatto che si confonde spesso l’utile col necessario e non si vogliono riconoscere le lacune di cultura generale di gran parte della categoria. Ma perchè non fare corsi di secondo livello per i più preparati?
Giorni fa una collega mi chiede: “A che servono i corsi di aggiornamento obbligatori per i giornalisti? Si insegnano solo banalità e niente nè di utile nè di nuovo. Ad esempio nuove tecnologie, rudimenti di programmazione, insomma roba che serva davvero ad allargare gli orizzonti alla professione. Tutti i programmi che ho letto”, continuava, “parlano di deontologia, di abc informatico, di come si apre un account twitter. Ma a un professionista si devono insegnare queste cose? Devo essere costretta, pro forma, a seguire lezioni su argomenti che già conosco e su cui potrei io insegnare ai docenti?”.
Dal suo punto di vista, aveva ragione.
Qualche tempo prima, un articolo su Wired (qui) sosteneva più o meno le stesse cose: “Corsi di aggiornamento per giornalisti, un’offerta demenziale (e una proposta). Quelli gratuiti previsti dall’ordine sono inutili. Possiamo dare una mano?“, titolava il periodico. Pur facendo la tara al punto di vista un po’ troppo digitally oriented del mensile, anche loro avevano (sorvolando sull’uso disinvolto dell’aggettivo “demenziale”) una parte di ragione.
Ancora prima la questione era stata sollevata dal Fatto Quotidiano.
Gli argomenti sono noti: i corsi gratuiti non servono a niente, quelli utili sono a pagamento, è tutta una formalità all’italiana, etc.
“Sarei del tutto dalla tua parte”, rispondevo alla collega, se non avessi assistito in diretta a numerosi corsi “di base” organizzati dal mio Odg regionale e non avessi visto giornalisti, o presunti tali, sgranare gli occhi per la meraviglia nell’apprendere cose sulla propria professione (norme, deontologia, diritto, etc) che per me erano di una ovvietà assoluta e anche di una noia mortale. Ne ho tratto la conferma che il 70% della categoria è preda di un analfabetismo professionale di ritorno (sempre ammesso che ci sia stata un’andata, viste le modalità di accesso all’albo) e che una rinfrescata obbligatoria sia più che salutare per non dire necessaria.
“Sì – mi ha risposto lei – condivido in pieno la tua sintesi. Faccio però due riflessioni: la prima, che i corsi sui fondamentali non dovrebbero essere spennapolli. Tipo “Facebook operativo per giornalisti”, che per 100 euro in 4 ore ti insegna ad aprire un account, postare un aggiornamento di stato e farti gli amici. La seconda, più importante secondo me, che comunque inserire la validità di Moocs e altri corsi di livello “superiore” per i CFP non è una alternativa, ma sarebbe una integrazione intelligente dell’offerta formativa“.
Ecco centrato il punto.
Una soluzione che parrebbe lapalissiana. Ma che si scontra contro l’ostinata vulgata politically correct secondo cui tutti i giornalisti sono uguali e, quindi, tutti hanno bisogno del medesimo aggiornamento professionale. E non mi riferisco, sia chiaro, alla pur evidente disparità (almeno teorica, sul pratico ci andrei più cauto) di formazione specifica tra professionisti e pubblicisti, ma a quella che con altrettanta evidenza separa chi sa di più da chi sa di meno, per mere ragioni di differente percorso scolastico, di studi personali, capacità, esperienza, intelligenza.
Sono curioso di capire se, superata la fase concitata del varo della formazione obbligatoria continua, l’Ordine saprà raccogliere questa sfida di trasparenza, di onestà intellettuale e di tutela concreta del prestigio della categoria.