LIBRI&VINI/4. La bevanda dei normanni era la birra. Ma ho letto un libro che parla anche del vino che bevvero. Così, tra le pagine, ho stappato un bianco che sa di mare e vento ed è fatto da un duca pugliese di remote origini nordiche. Ecco l’effetto che fa.

Scrivere un libro di avventure mi pare impresa difficilissima, perchè la capacità di raccontare storie a un lettore adulto e smaliziato, riuscendo a coinvolgerlo con lo stesso interesse di un bambino e senza offrirgli gli appigli per notare incongruenze, lacune e cadute di tono, è prerogativa di pochi.
Da qui una certa diffidenza nell’accostarmi a libri che la propaganda spaccia per “epopee“.
E che di solito finiscono in coda, parecchio in coda, ai volumi che hanno riempito i pomeriggi e la fantasia di quando eravamo fanciulli. Tipo la “Storia delle Storie del Mondo” di Laura Orvieto, per esempio, con quella copertina dello stesso color nero e mattone delle antiche ceramiche attiche e le pagine macchiate da quel paio di generazioni che le avevano sfogliate prima di me.
La lettura de “Le navi dei Vichinghi” di Frans Gunnar Bengtsson, appena (ri)pubblicato da Superbeat (240 pagine, euro 13,90) ha invece dissipato tutti i miei dubbi.
E’ un racconto lineare, potente, pienamente avventuroso sebbene non epico, pieno di argute notazioni caratteriali sui personaggi e non scevro di sarcasmi e di bonarie ironie sui costumi dei popoli. La storia racconta in diversi capitoli, esattamente come una saga, i viaggi e le gesta di Orm il Rosso, figlio di Toste, un capo vichingo vissuto poco prima del Mille, che la vita, il destino, la storia portano in giro per metà del mondo allora conosciuto a quelle latitudini: dall’Andalusia araba ai regni cristiani spagnoli, dall’Inghilterra da poco evangelizzata all’Irlanda dei monasteri, dalla Danimarca dei fragili sovrani all’Islanda remotissima, dalla Svezia semibarbara all’inquieta Norvegia.
Scritto con il ritmo narrativo di una cronaca antica, in cui il pathos sembra attutito dalla tempra dei protagonisti e dalla primordialità dei loro ragionamenti, il libro sciorina i viaggi del protagonista assieme ai fatti notevoli – razzie, duelli, contrasti, agguati, bevute, tesori – che girano loro attorno. E tu ti ci immergi completamente, come se leggessi in perfetto isolamento su un canotto al largo, cullato da placide onde, senza vento nè spruzzi fastidiosi.
Poi ti viene sete e la voglia di stappare qualcosa di fresco (lo so che i canotti non hanno il frigo, ma il mio, sebbene immaginario, è di superlusso), godibile e non banale, profondo quanto basta a richiamare per alcuni attimi la coscienza sul gusto e sull’olfatto. Rapido esame della cantinetta e la scelta cade sul Taersìa Salento Igt 2013 del Duca Carlo Guarini. Il fatto che sia un sapido, solido, inusuale Negroamaro vinificato in bianco e che il nome, nel dialetto dei pescatori salentini, significhi tempesta di vento portatrice di bufera non è affatto casuale. Come non è casuale, lo ammetto, che l’antenato di Giovanni Battista Guarini, il normanno Ruggero, sia sceso nelle Puglie dal Nord attorno al 1040.
Così bevi e rieccoti al fianco di Orm e alla sua spada Lingua Azzurra, predone e vichingo per caso, sì, ma destinato presto a divenire capo (sebbene non un grande capo) grazie all’astuzia, al buon senso, allo strapotere fisico, alla capacità di adattamento, alla pacatezza dell’eloquio e a un non secondario talento nella gestione degli affari e della mediazione. Un eroe-non eroe insomma, ora scaltro e ora credulone, ora svenevole e ora invincibile, spesso sconcertato al cospetto degli scontri tra religioni e tra dei ai quali, suo malgrado, è costretto ad assistere dovendo spesso fare buon viso a cattivo gioco. Crede in Thor, Odino e le divinità marine, ma non esita a convertirsi pro forma a Maometto per sfuggire ai remi. Deride i cristiani, i loro insistenti preti evangelizzatori e i loro usi, ma poi non ci pensa due volte a farsi battezzare (dopo aver contrattato mercedi e ricompense, però) pur di ricongiungersi all’amata Ylva, figlia di Harald Dente Azzurro, defunto re di Danimarca. E infine sceglie di ritirarsi ai margini, nella sua terra di Scania, quasi intimidito dalla nascita dei grandi regni che stanno ormai affacciandosi anche nel Nord, prendendo il posto di quelli regionali della semianarchia altomedievale che erano stati il suo orizzonte di guerriero.
A questo punto il libro è finito, la bottiglia quasi e tu rituffi il naso nel bicchiere, ne apprezzi i profumi complessi di miele, nocciola e fiori di acacia. Rimugini sulla pienezza che il vino ti lascia in bocca, la bella struttura e la buona acidità. Non è un vino che scivola via, come non scivolano via le immagini della navi vichinghe.
Poi ti sovviene che Frans Gunnar Bengtsson (1894 – 1954), poeta e scrittore svedese, fu coetaneo della Orvieto.
I conti tornano e il canotto va.