Oggi Zimmy compie 70 anni, in un’orgia di inevitabili celebrazioni. Anch’io voglio farlo, ma a modo mio: rievocando l’album centrale della sua vita e della sua carriera, pubblicato a metà strada tra oggi e il 1941. Si chiamava Desire e correva il 1976.

Nel giorno del suo 70° compleanno e delle giuste, inevitabili celebrazioni, è difficile dire qualcosa di Bob Dylan che non sia banale. Più ancora dire qualcosa che non sia agiografico, né buonista.
Dunque facciamo piazza pulita, innanzitutto, dei nomignoli risaputi tipo menestrello o poeta di Duluth. Vade retro, voce di una generazione. Sciò alla retorica del duo sentimental-politico Dylan/Baez. Glissiamo pure sugli episodi arcinoti come l’epopea edificante di Like a rolling stone, l’”eretica” esibizione elettrica con Al Kooper e Mike Bloomfield al festival di Newport del 25 luglio 1965, l’incidente in moto del 1967. Più divertente la storia, ma non so se vera e comunque irrilevante, che abbia rifiutato di suonare a Woodstock perché il concerto era troppo vicino a casa sua. Belli, ma musicalmente forse meno decisivi, anche i momenti della sua conversione al cristianesimo e la manciata di album quasi gospel che ne seguirono, causa di non pochi maldipancia per i fan (e i critici) troppo legati alla figura del contestatore politicizzato. Per non parlare dell’incontro di Zimmy con il Papa Giovanni Paolo II, il 27 settembre del 1997.
Voglio invece parlare di Bob Dylan – e rendergli così in qualche modo omaggio – fissando un momento anche anagraficamente centrale della sua esistenza, il 1976.
Dylan ha trentacinque anni, esattamente la metà di adesso. E’ nel pieno del potenziale artistico ed espressivo. Ha superato la crisi della droga, la fine della contestazione, ha scollinato indenne sugli scogli del giovanilismo, è sfuggito al trascorrere delle mode. Ha appena pubblicato un album criticatissimo, che poi diventerà acclamatissimo (“Blood on the tracks”).
Ma nel ’76 se ne esce con un altro disco che personalmente giudico tra gli apici della sua carriera. Il disco della piena maturità, diretto, spoglio da omaggi a qualunque clichè, intimo e potente, vibrante e malinconico, senza ammiccamenti di maniera. Si intitola “Desire”. Lo pubblicano nei primissimi giorni dell’anno. Qualcuno, non ricordo chi, lo ha paragonato a un diario di viaggio. Definizione azzeccatissima. Perché le canzoni, lunghe e di ampio respiro, si susseguono come le tappe di un lento cammino. Slegate tra loro ma unite dal medesimo filo, dal medesimo percorso. E’ un Dylan screziato, emotivamente complesso, di nuovo eroe delle cause umanitarie scrostate però dalle vernici, divenute appiccicose, dei diritti civili in “Hurricane” (l’album e la prima canzone sono dedicate al pugile Rubin “Hurricane” Carter, incarcerato forse ingiustamente per omicidio), è il Dylan romantico e latino di “Romance in Durango” (poi rifatta da De Andrè), è il Dylan familiare e dolente di “Sara”, la canzone rivolta alla quasi ex moglie. Ed è anche il Dylan pieno di energia del tour con la Rolling Thunder Revue e lo scopritore della giovane Scarlet Rivera, la violinista passata quasi per caso dagli anonimi concerti del Village alla band del cantautore più famoso del mondo.
Né tenebre né selve oscure dantesche lo circondano in quest’opera, che cade appunto a metà della sua vita. Niente drammi, ma casomai i violenti chiaroscuri del bosco, i raggi di sole che filtrano a sorpresa tra i rami e le foglie, le gole cupe odoranti di muschio. I connotati insomma di una maturità ancora tutta da esprimere e al tempo stesso ormai pienamente leggibile, complessa, coesa.
Ecco, oggi che Bob Dylan compie settant’anni, mi piace celebrarlo così. Cogliendolo al centro di se stesso. “Here comes the story of the Hurricane…”.