E’ più sconcertante che, per la presentazione del libro (edito da Vallecchi e arricchito, rispetto all’originale del 1982, di un doppio saggio e di nuovi documenti) si mobilitino i “ragazzi” dei centri sociali o che il grande giochino della politica tenti di allungare i suoi tentacoli, facendo leva sull’apparente equivoco tra la Nuova Destra di ieri e la Destra Nuova di oggi? La risposta è forse già tra le righe di questo “ripensamento onesto e doveroso, che ha tratto spunti da un percorso comune concluso ormai da molto tempo ma le cui tracce non si cancelleranno mai completamente”. Tra un’analisi “scientificamente corretta” dei fatti e un percettibile soffio che non scade mai nel “cedimento sentimentale”

Ammettiamolo, perchè è inutile girarci intorno: sono tanti i piani di lettura, di comprensione e financo di coinvolgimento emotivo de “La rivoluzione impossibile”, il volume (Vallecchi, 18 euro) curato dal politologo fiorentino Marco Tarchi che ripubblica, integrato con una trentina di nuovi “ritagli” dai giornali dell’epoca, nonchè un saggio e una postfazione dello stesso Tarchi, l’ormai lontano “Hobbit/Hobbit” (Leda, 1982), primo resoconto dei tre “campi” che tra il 1977 e il 1980 riunirono quella che allora cominciò a chiamarsi e poi divenne la “Nuova Destra”.
Ed è anche in virtù di questi molteplici livelli di lettura – spalmati tra nostalgia e rigore metodologico, prese di distanza e rivendicazioni di paternità, rimozione della memoria e riassimilazione di istanze mai dimenticate – che il libro è letteralmente andato a ruba, esaurendo in poche settimane le 2.500 copie della prima edizione.
Nemmeno per il recensore, del resto, questo “La rivoluzione impossibile” è un’opera con cui fare facilmente i conti. Perchè lacera, divide, costringe, secondo i casi, a farsi risucchiare indietro nel tempo o a rifugiarsi in una terzietà che rischia di sfociare nel preconcetto, inducendo a rileggere quei fatti, quelle storie, quelle idee con il medesimo trasporto o la medesima ostilità con cui furono lette allora. Come dimostra proprio l’apparato dei commenti giornalistici d’epoca che il curatore ha intelligentemente inserito nel volume odierno.
“La rivoluzione impossibile” è insomma e prima di tutto uno spartiacque tra coscienze, generazioni, destini. Tra chi c’era e chi non c’era, tanto per cominciare. Tra chi avrebbe voluto e chi non volle esserci. Tra chi preferirebbe non esserci stato e chi semplicemente ha rimosso. Tra chi non ha capito e chi nemmeno oggi vuole capire, o almeno tentare di comprendere. Tra nostalgismo e nostalgia, ma anche tra chi l’ha fatta finita con la destra (per parafrasare Stenio Solinas, uno che i campi Hobbit li visse da protagonista) e chi non vuole farla finita con ciò che ne resta o che ne fu. A cominciare da personaggi come Gianfranco Fini, che loro malgrado vengono ricondotti dalle cronache dell’oggi ai rigurgiti e ai portati di ciò che accadde allora, in una miscela a volte untuosa di opportunismo politico e di politicamente corretto, di abiure e di ricordi scomodi. Ma è anche uno spartiacque tra chi è disposto a ripensare e chi invece avverte questa rivisitazione o come un’inaccettabile espressione di revisionismo o una tardiva e autocompiacente celebrazione.
Questa lunga premessa era indispensabile per presentare il libro per ciò che effettivamente è: il tentativo – da parte di chi da un lato la visse in prima persona, ma dall’altro ha preso da tre lustri le distanze da quel mondo – di mettere un punto, anzi un punto fermo, sulla stagione che, nella seconda metà degli anni ’70, condusse una certa anima movimentista del MSI, intellettualmente e culturalmente attrezzata, prima a tentare di uscire dal “tunnel del Fascismo” (per usare un’espressione dello stesso Marco Tarchi) e del partito-apparato e poi ad approdare sul terreno vergine del superamento dello schema codificato e frusto “destra/sinistra”, gettando il seme di un pensiero che si sarebbe evoluto nella stagione della Nuova destra e infine, metapoliticamente, nell’idea della necessità di “nuove sintesi”.
Non è un libro da leggere tutto d’un fiato, “La rivoluzione impossibile”, se non forse per gli storici e per chi visse dal vivo i campi Hobbit, ma piuttosto da compulsare lentamente, saltando qua e là, immergendosi nel lessico, giocando a riconoscere personaggi e idee, ricollocando i fatti e i sentimenti nel contesto dell’epoca, tirando i fili della memoria e ricostruendo verità molto spesso travisate, tirate per la giacca, adattate utilitaristicamente ora a prova e ora a controprova. Talvolta compiacendosi un po’, più spesso amareggiandosi. Facile cogliere le ingenuità, meno facile riconoscere il coraggio di quella gioventù, allora ostilmente accerchiata tanto dagli avversari politici quanto dall’ortodossia della loro stessa parte. Una gioventù i cui spiccati tratti esistenziali furono il germe della diaspora degli anni a venire, delle epurazioni, delle svolte, delle carriere, dei voltafaccia, dei riflussi, delle scelte di “ufficio, famiglia e carriera” e delle rinunce a “rabbia, speranza e dolore”, vicende in cui – per rievocare una canzone dell’epoca – non si possono “spiegare le trame sottili” tra “logica fredda di toga e logica grassa di fifa”.
Ed è abbastanza triste ed emblematico dei tempi che corrono il fatto che, a trent’anni esatti dall’ultimo campo Hobbit, l’uscita di un libro dedicato a quell’esperienza possa ancora suscitare mal di pancia, mobilitazioni di centri sociali, tentativi di appropriazione indebita e sabotaggi come quelli a cui abbiamo assistito nei giorni recenti.
Inutile dire che il lungo saggio introduttivo e la postfazione di Marco Tarchi conferiscono al volume uno spessore e una consistenza ben diversi dall’opera originaria, laddove da un lato si ripercorrono con puntualità le vicende interne del partito e si spiega la genesi di quella fronda da cui l’idea del campi Hobbit, con le sue spesso inconsapevoli conseguenze, prese il via, e dall’altro si lumeggiano tutte le complesse, perfino contorte fasi del dopo, che dal MSI portarono a Fiuggi e oltre. Al lettore stabilire se la via d’uscita dal “tunnel del Fascismo” fosse proprio quella. E magari di capire quale sia quella per uscire dal tunnel odierno.