La parafrasi del titolo del vecchio LP del Perigeo casca a fagiolo per fare un ragionamento innescato dalla lunga conversazione avuta con Dirk Hamilton sulla musica, i dischi, l’arte e il mastice di una passione che fa campare un’industria in crisi.

Mentre, cazzeggiando tra una canzone e l’altra, intratteneva il pubblico durante il concerto che con gli amici del Crete Senesi Random Rock Festival gli ho organizzato (qui) sabato scorso in una chiesa di campagna di Clavesana, nel profondo delle Langhe più rurali, a quel pubblico strano, di gente di varia provenienza, Dirk Hamilton ha fatto un’inattesa confidenza. Che ha circoscritto meglio la mattina dopo, davanti al caffè.
La mia carriera di musicista dura tra alti e bassi da trenta, quaranta, cinquant’anni, nemmeno mi ricordo di preciso. Ho inciso diciotto album, mi pare. Ho avuto un sacco di soddisfazioni e un sacco di problemi“, ha detto. “Abito coi miei due figli in Texas, ma io mi sento californiano pur essendo nato nell’Indiana. Sono un pessimo promotore di me stesso. Un pessimo venditore. Ci sono altri che su questa virtù che a me manca hanno costruito una carriera. E’ una cosa a cui ho pensato spesso. Poi, però, a un certo punto mi sono messo a ragionare più ampiamente su queste cose, ad allargare gli orizzonti. Ho riflettuto sui dettagli. E mi sono reso conto che la mia vita è stata comunque speciale, piena di cose che nessuno ha avuto l’opportunità di fare. Una vita ganza. E’ per questo che nel 2009 decisi di incidere un disco che si chiamava ‘More songs from my cool life‘, cioè qualche canzone in più dalla mia ganza vita“.
Potrebbe sembrare il bilancio esistenziale un po’ agrodolce di un uomo disincantato.
Ma a ben vedere non è proprio così.
Quello della musica e di ciò che la circonda è infatti un mondo estremamente fisico. Materiale. Assai più materiale di quello che il medio compratore di dischi pensa. Fatto di bisogni primari e di necessità immediate: mangiare, pagare i conti, incidere gli album e poi venderli, restare in equilibrio tra le aspettative dei fan e il conto in banca. Meno i fan sono di bocca buona, più alte sono le aspettative. Più alte sono le aspettative, più alta è la tua reputazione. Ma oltre che un artista, sei un professionista che del proprio lavoro campa.
Ricordate? “Io dovevo essere il leader e tu il chitarristica dall’alone mistico” rinfaccia Jeff Bebe a Russell Hammond in una delle scene clou del film-manifesto “Quasi famosi“, al culmine di una lite scoppiata per via di una banale foto su una t-shirt da merchandising e le relative, misere gelosie all’interno di un gruppo che, per l’appunto, è ancora troppo e soltanto quasi-famoso per potersi permettere passi falsi.
Voglio dire che esiste un abisso tra il mondo della rockstar che arriva in limousine, suona davanti a 50mila persone al Madison Square Garden e poi torna alla sua suite al Four Season e il musicista noto, ma minore, che il divo invita sul palco per cantare insieme a lui, lo abbraccia, lo saluta. Lo stesso che poi, dopo il bagno di folla, esce solitario dall’uscita secondaria, prende la metro e torna a casa con la chitarra a tracolla. La stessa chitarra che poco prima sfavillava sotto i riflettori del grande palco.
Sembra una banalità, una constatazione stucchevole, finchè non la si tocca con mano e non si sente il vero odore di muffa dei sottoscala, non si osservano i panni davvero stazzonati dei musicisti, non si sfiorano i muri degli androni realmente sporchi dei teatri, sotto la luce fioca di certe lampadine appese direttamente al filo, non si annusa la polvere acre dei palcoscenici di provincia e delle banconote stropicciate con cui, in contanti, si pagano dei miseri cachet.
E’ allora che si realizza come, in fondo in fondo, ciò che sul serio tiene insieme tutta la plastica, il castello di carte dell’advertising, le simulazioni, i fotoritocchi, gli spot, la finzione di un sistema in cui lo stesso essere star è spesso simulato, è il sottile filo della passione. Non una passione cieca, da adolescenti. Ma critica. Selettiva. Tenace e tuttavia vigile, capace di discernere. Un cerchio ampio e fragile che serra le doghe della grande botte dello spettacolo. Una spilla di sicurezza.
Se si rompe il filo o se la passione si dissipa, il sistema evapora.
Come è successo all’industria del disco, messasi fuori gioco da sola a forza di vendere fuffa digitale e virtuale trasmutata a poco a poco in inutile musica da sottofondo.
Ce n’è quanto basta a rendere all’improvviso cool perfino la vita usurante di chi è nato prima.
Di Dirk Hamilton, ad esempio.