Diventare un “giornalista rock” è il sogno di quasi tutti quelli che iniziano a comprare dischi, ma pochi di loro sanno che significa essere giornalisti (rock o meno). Di questi, appena un paio restano appassionati anche da adulti. E solo uno ha i numeri per fare il critico. Al Festival del Giornalismo Musicale di Faenza s’è parlato di questo. E di associazionismo, ad esempio.

 

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Se non fosse seria, l’espressione “giornalista rock” sembrerebbe uno slogan di sapore giovanilistico (avete presente lo stucchevole tormentone del supermolleggiato, che distingueva ciò che è “rock“, da ciò che è invece “slow“? Ecco).
Peccato che quella del giornalista rock sia invece una figura serissima. E che appartenere alla categoria lo sia ancora di più. Non foss’altro che per i sentimenti che tira in ballo.
Scrivere su e per i giornali di musica è, non a caso, all’incirca il sogno del 99% di chi, durante l’adolescenza, compra i dischi. E chi compra quei dischi, anche quando l’adolescenza è finita da un pezzo, basa quasi sempre le proprie scelte sulle recensioni di un giornale e quindi di un giornalista rock.
Resta però da stabilire cosa davvero contraddistingua come “rock” un giornalista.
Io, ad esempio, che (oltre a essere giornalista di mestiere) da più di quarant’anni compro dischi, li recensisco, li ho trasmessi per radio, li ho commentati, organizzo concerti e ho sempre desiderato esserlo, sono un giornalista rock? Mi sento tale? E, come tale, sono riconosciuto?
Difficile rispondere.
Per sentire, sento di esserlo. Se lo sono o meno, o se sono riconosciuto esserlo, dipende dai connotati che mi viene chiesto di rivestire e quindi lascio al prossimo il giudizio.
Per farmi un’idea, però, di come fossero o si sentissero i colleghi veri o presunti sono andato domenica scorsa al primo Forum del Giornalismo Musicale (qui) di Faenza, organizzato nell’ambito del Mei, il Festival della musica emergente italiana.
E, lo dico subito, è stata una cosa seria.
Che non lo fosse qualche rischio c’era, anche se a giudicare da com’era organizzato e da chi partecipava non mi pareva un bluff. Infatti non lo è stato.
Il bello, e al tempo stesso il brutto, è che lì ho trovato esattamente ciò che pensavo di trovare: molti coetanei, molti mezzi giovani, qualche giovane e qualcuno più anziano di me. C’erano giornalisti fatti, più o meno famosi, giornalisti in via di formazione, aspiranti giornalisti e alcuni non-giornalisti. Variegata la fisiognomica, la provenienza, l’abbigliamento (dalla giacca blu ai bermuda). Variegata la competenza musicale.
E variegata ahinoi – qui viene il prevedibile brutto della faccenda – la consapevolezza di ciò in cui questa professione, che sia rock o meno, musicale o meno, consiste.
Per capirsi: finchè si è parlato più di musica che di professione giornalistica, il terreno comune è stato ampio. Le distanze si sono subito allargate quando si è cominciato a parlare di giornalismo tecnicamente inteso. Si è scoperto allora un numero di interpretazioni del termine con più varianti delle proverbiali formazioni dei Soft Machine: giornalisti che agiscono come fan (a volte senza saperlo), fan camuffati da giornalisti, critici che non vogliono essere giornalisti e critici che lo vogliono, giornalisti che (a volte sempre senza saperlo) fanno gli editori, editori che fanno i giornalisti, dj che confondono i loro programmi per testate e il loro lavoro per giornalismo. Un guazzabuglio musicalissimo ma, concettualmente, a dir poco confuso. E, su tutto, l’eterno dilemma: giornalista (rock) si è o si fa?
Non a caso la parola che, tirando le somme, è stata meno pronunciata è stata – come ho detto nel mio, al solito impopolare, intervento – “professionalità“.
Che non c’entra nulla con l’essere professionisti o pubblicisti ed è invece, secondo me, l’espressione che sintetizza con perfetta coesione tutti i connotati del “giornalista rock” propriamente detto: competenza, cultura generale, onestà intellettuale, indipendenza, curiosità, orecchio, malizia, disincanto, senso della deontologia, capacità di separare i fatti dalle opinioni e le passioni personali dalla critica.
Cose facili da predicare, ma difficili da praticare. Su cui alcuni dei relatori più scafati (l’ex direttore di Musica & Dischi, Mario De Luigi, Giò Alajmo, Ezio Guaitamacchi) hanno provato a mettere in guardia i presenti.
Ma con le quali le nuove generazioni fanno ancora più fatica delle vecchie ad impratichirsi.
Non perchè, come talvolta si è detto, ne manchino gli spazi, o i soldi, o i giornali, o le opportunità anche se, sì, oggi è tutto molto più liquido, dispersivo, confuso. Bensì perchè il mondo non è più culturalmente “musicocentrico” come lo era fino a vent’anni fa. E se una professione in crisi, come quella giornalistica, non può certamente aiutare i giovani a diventare giornalisti, figuriamoci se può aiutarli a diventare giornalisti rock, un mestiere in cui per definizione si vive sul filo.
Ecco perchè l’idea, emersa al termine del dibattito faentino, di (ri)costituire un’associazione che riunisca coerentemente gli addetti ai lavori ha un suo senso e un’utilità.
La sposo senza esitazioni.
Purchè rifugga (ho detto, sempre impopolarmente si capisce, anche questo) alle grinfie affamate di tessere dei gruppi di specializzazione sindacali e dai vari carrozzoni istituzionali. Un pericolo che in pochi – un po’ per inesperienza, un po’ a sommo studio – mi è tuttavia sembrato abbiano percepito.
Alla fine resta comunque un fatto, una constatazione consolante: lo spirito che aleggiava nella sala era ancora percorso da quella “passione” che, se si riesce ad andare oltre la superficialità, costituisce sempre il terreno di coltura necessario per la formazione di un critico rock.
E visto che il Festival dovrebbe avere un seguito, mi pare una buona base per guardare al futuro.