VIAGGI, BEVUTE & PERSONAGGI, di Federico Formignani.
Il Vinum Bonum per Léo Moulin: “Bere alla cappuccina è bere poveramente; alla celestina, largamente; alla giacobina, bottiglia dopo bottiglia; alla cordoncina (cioè alla francescana) è vuotare la cantina

 

All’inizio degli anni Novanta ho conosciuto e frequentato in alcuni convegni sul Medioevo, diventandone amico, il belga Léo Moulin, nato a Bruxelles nel 1906 e qui deceduto nel 1996.

Léo era sociologo e scrittore di lingua francese, professore nelle Università di Lovanio, Namur, membro del Collegio d’Europa di Bruges e successivamente presidente dell’Istituto belga di Scienze Politiche. Infinite e piacevolissime le sue dissertazioni sul Medio Evo (lo preferiva scritto così) sulla vita e le attività monastiche di questo periodo storico. Convinto estimatore del buon bere e buon mangiare, sosteneva che i religiosi del tempo avevano sviluppato la coltura della vite e prodotto birre e vini eccellenti perché condizionati dall’isolamento iniziale dei loro conventi e abbazie; da ciò l’autonomia nel produrre, consumare e talvolta commerciare cibi e bevande.

Il cristianesimo aveva bisogno del vino per celebrare la Messa; ma dire vino nel medioevo voleva anche dire affrontare gravi problemi di trasporto e costi elevati. Per risolverli, i vescovi facevano piantare vigne ovunque attorno alle sedi vescovili. I monaci, molto spesso assai lontani dai centri urbani – votati all’autarchia e per lungo tempo assai poveri – avevano più ragioni ancora per farlo. Il loro compito nella selezione dei ceppi e nel perfezionamento della vinificazione, resterà dominante fino al XVIII secolo. In effetti essi sono stati i veri patres vinearum (padri della vigna).

La coltura della vigna era un fatto di importanza tale che il praepositus primus, la persona seconda in grado dopo l’abate, ne aveva il gravoso incarico.

Naturalmente Léo, nelle sue documentate divagazioni, non mancava di porre in evidenza come, riferendosi all’Italia, la lista dei vini prodotti fosse altrettanto lunga come quella francese. Eccone una prova: ai Cavalieri di Malta si devono il Bardolino, il Soave, il Valpolicella e il vino dei colli del Trasimeno; ai Benedettini il Cirò, il Freisa, il Ragnano, il Greco di Gerace e il Greco di Tufo, oltre al Monsonico e il Santa Maddalena; ancora ai Benedettini e ai monaci scalzi il vino dei Colli Euganei; sempre ai monaci scalzi e ai Gesuiti, oltre che ai monaci di Grottaferrata, il Frascati; ai Gesuiti si aggiunge ancora il Lacrima-Christi; ai Certosini e ai cavalieri di Malta il Capri; ai Cistercensi il Gattinara e lo Spanna; ai Templari infine il Locorotondo.

Chiudo gli occhi e rivedo il viso soddisfatto del professore che precisa, a bassa voce e sorridendo: “…cito i vini famosi che gorgogliano ancor oggi nei nostri ricordi e nella nostra bocca; ma ogni comunità di monaci che iniziava una fondazione non aveva preoccupazione più pressante, dopo essersi assicurata la sopravvivenza, che quella di piantare una vigna!”. Prestigio, attaccamento ai frutti del lavoro di tutti, tradizione, bisogni religiosi, sorgente di risorse e chi sa, golosità, sono tutte ragioni per le quali i monaci non abbandonavano mai senza dispiacere i vigneti, opera delle loro fatiche quotidiane.

Produrre vino nel medioevo, continuava Moulin, era per i religiosi impegno gravoso, che andava quindi regolamentato in ogni sua fase; la preoccupazione prima di chi era preposto a verificare che nei conventi vi fossero riserve a sufficienza della bevanda, era alla fine quella di apporre sul documento il satisfecit solo quando aveva effettivamente controllato a fondo e poteva concludere: “…habet vinum usque ad novos fructus” (hanno vino fino alla prossima vendemmia). Nel IX secolo, il consumo sarebbe stato di 1132 litri all’anno per monaco (e anche più, aggiungeva convinto Léo Moulin!); alla fine del XIV secolo, i monaci di un’abbazia benedettina francese ricevevano un litro di vino nei giorni di festa e mezzo litro circa normalmente. Nel 1389, essi ottengono che venga celebrata una Messa per i religiosi morti nel corso dell’anno; quel giorno, dicono le cronache “l’abate offrirà al monastero un pranzo simile a quello di una domenica, con la grande zimarra e con quattro pinte di vino, cioè un litro e mezzo di vino per il pasto! Nel XIV secolo si bevevano da 2 a 4 litri di vino al giorno. Un autore del medioevo, ricordava Moulin, scherzava su questo gusto dei religiosi per il vino, scrivendo: “…mai, qualunque sete possa avere, infornerà latte sotto i suoi baffi”. All’inizio i monaci ricevevano un recipiente, detto justitia o pinta, che conteneva la razione di due fratelli: anche in una comunità di santi – e tutti i monaci non lo erano – questo non sarebbe stato un buon sistema. Con il servizio in tazze (tacea) individuali si passava da quelle di legno di Cluny – cosa da far inorridire i degustatori di tutto il mondo – a quelle di vetro in altri luoghi. Più importante il contenuto e le razioni che variavano secondo la gerarchia, ricordava il filosofo belga. Se per il semplice monaco, il fanciullo o il converso cluniacense era di una giustizia per pasto, essa diventava di due per il priore del chiostro; il grande priore ne riceveva a discrezione già alla piccola colazione del mattino! In alcuni giorni i monaci disponevano di una razione supplementare chiamata “vino di carità” che era l’equivalente della pietanza in tema di cibo e corrispondeva a un terzo della razione solita o alla metà all’occorrenza. Infine, per le sere d’estate e dopo l’ora nona, il monastero andava in gruppo a bere un sorso di vino nel refettorio.

I racconti di Moulin sui monaci e sul loro amore per il vino affascinavano la ristretta platea di amici. Ricordava come l’intemperanza dei religiosi in ogni epoca sia stata tema di insinuazioni, d’altra parte più amichevoli che cattive. Un detto ben conosciuto recitava: “Bere alla cappuccina, è bere poveramente; bere alla celestina, è bere largamente; bere alla giacobina, è bottiglia dopo bottiglia; ma bere in cordoncina (con allusione alla cintura di corda dei francescani conventuali) è vuotare la cantina”. Se le antiche regole monastiche proibivano quasi sempre il vino in modo assoluto, altri legislatori erano più indulgenti e ne permettevano il consumo in alcune feste.

Ma è con San Benedetto, la cui regola si impone all’intero Occidente, che il vino viene alla fine ammesso come una delle basi dell’alimentazione quotidiana. Il padre dell’Europa non ha preso questa decisione alla leggera; per sua indole, sarebbe stato propenso a proibirne l’uso, sulla scia dei suoi grandi predecessori, ma fedele al suo senso della misura e della discretio, si piega davanti alla debolezza degli uomini (infirmitas, dice nel capitolo che tratta dell’alimentazione, imbecillitas quando si tratta di vino), aggiungendo che senza dubbio il vino non conviene ai monaci, ma che è impossibile su questo punto far loro intendere ragione. San Benedetto permette inoltre di superare la razione prevista in tre casi: per loco necessitas, cioè a causa delle condizioni locali quale un clima particolarmente secco, o per la scarsità di frutti e di legumi (è significativo che il patriarca d’Occidente non abbia consigliato di bere acqua); ancora: per il labor, raccolta delle messi, fienagione, per la vendemmia, per il lavoro nei laboratori, e per l’ardor aestatis, il caldo dell’estate. Ben inteso questo permesso si accompagnava al consiglio di evitare l’ebbrezza e l’indigestione. Il vino diviene così, con il pane, uno degli impegni maggiori dei cellerai (vinitarius) incaricati di vegliare sul rifornimento delle cantine e sulla conservazione dei vini.

Un brindisi riconoscente all’amico belga, studioso serio e compagno gaudente di rilassanti degustazioni.