di URANO CUPISTI
Nel 1973 avevo 27 anni e dovevo mantenere la promessa fatta nell’Oceano Indiano sedici anni prima: scalare le cime dell’isola. Lo feci, ma arrivare fu un’avventura. Poi scorrazzai qua e là, con la birra di monsieur Avanzini e la cucina di madame Rocela.

 

Correva il 1973 e io avevo 27 anni.

Scelsi quell’isola per una suggestione avuta però molto tempo prima. Per la precisione quando, durante un viaggio con mio padre, comandante di macchina sulle grandi navi cargo, nel 1957 navigavamo verso Aden, che allora era in Yemen del Sud.

Non posso dire che a La Réunion passammo proprio di fronte, anzi in verità ci tenemmo parecchio al largo, ma vicino abbastanza per ammirare il suo grande vulcano addormentato, il Piton des Neiges, la vetta più alta dell’Oceano Indiano con i suoi 3.071 metri di altitudine. L’altra cima più a sud, alta oltre 2600 metri, è invece un vulcano ancora attivo, il Piton de la Fournaise.

Fu allora che promisi: “Prima o poi tornerò e ci arriverò fino in cima“.

Per mantenere la promessa composi un vero e proprio puzzle odeporico:  volo East African Airwais da Londra con destinazione Nairobi, cambio di aeromobile per Port Louis (Mauritius), imbarco su di un cargo destinazione la città portuale di Le Port, sulla costa occidentale de La Réunion, non molto distante da Saint Denis, la capitale isolana.

Vi chiederete del perchè di questo tortuoso tragitto, quando già esisteva un comodo volo diretto da Parigi (per chi non lo sapesse: la Réunion un territorio francese d’Oltremare).

La risposta è di natura valutaria.

Le norme italiane dell’epoca erano molto rigide e non permettevano ai cittadini una spesa fuori dai confini nazionali superiore a un milione di lire all’anno. Diciamo una somma del potere di acquisto pari a circa 7.500 euro odierni. E io non potevo giocarmi in un colpo solo l’intero budget valutatio annuale.

Mi feci i conti e preparai un piano alterenativo. Andata in treno fino a Modane con pagamento in lire, cambio di dollari in franchi, acquisto in franchi del biglietto per Parigi, autobus fino a Calais e passaggio della Manica, nuovo cambio di dollari in sterline e treno fino a Londra. La strategia era insomma non usare mai carte di credito (tracciate dall’Ufficio Italiano Cambi), ma solo dollari in biglietti di taglio sotto i 100$, più facili da cambiare, e utilizzo di moneta locale ottenuta sempre fuori dal circuito bancario. Operazione che, di solito, ristoranti e alberghi facevano volentieri.

Dire che organizzare questo viaggio risultò un’impresa è insomma dire poco.

Sei giorni di solo viaggio all’andata e sette al ritorno (un giorno in più, causa gli alisei contrari), senza contare il tempo perso per l’ottenimento dei visti allora visti di entrata e uscita da Kenya e Mauritius. E gli inevitabili biglietti verdi da 20$ messi nel passaporto per evitare lungaggini ad ogni frontiera.

Ebbene sì: negli anni Settanta e Ottanta, in molti paesi del mondo si viaggiava così.

Da Mauritius (Saint Louis) a Réunion (Le Port) ci sono circa 250 Km di mare e il Saint Joseph, così si chiamava il cargo, impiegò una quarantina d’ore di navigazione. Mare aperto, oceano abbastanza calmo, all’andata i venti alisei in poppa, qualche megattera, molti delfini come compagni silenti ad indicare la rotta.

Alloggiai in una Chambre d’Hotes, l’equivalente francese dei nostri b&b, solo che in questo caso si trattò di una casa privata, tipicamente coloniale, la cui proprietaria, la creola di nome madame Rocela, fu per me un’ancora di salvezza culinaria.

La casa era immersa in uno scenario bucolico, nella natura, a mezza via tra St.Denis e Le Port.

Aveva un arredo curato nei minimi dettagli che la sera, quando tornavo dai faticosi trekking nelle caldere vulcaniche, mi avvolgeva in uno specchio di colori e profumi che ancora, mentre scrivo, mi ritornano nella loro intensità insieme ai ricordi dell’isola: l’entroterra vulcanico, la foresta pluviale, le spiagge, le barriere coralline, i sapori e la birra Bourbon.

Il luogo più emblematico, e per me più significativo, della Réunion è ovviamente il Piton de la Fournaise, che scalai. Scalai così, per modo di dire: raggiunsi infatti la zona oltre la quale non si può andare, percorrendo un sentiero di media difficoltà.

Altre mete raggiunte nei giorni seguenti furono il Piton des Neiges  e le tre caldere, anfiteatri naturali formatisi da vulcani collassati, luoghi iconici dell’Isola, con paesaggi lunari utilizzati in tanti film di fantascienza.

Comunque avevo mantenuto la promessa e potevo dedicarmi anche la resto.

Noleggiai una Citroen Méhari e cominciai a percorrere la Rue National 1, lato occidentale, fino a Saint-Pierre. Qui la strada cambia numero, diventa la RN2 fino a raggiungere St. Denis percorrendo il lato orientale continuamente battuto dagli alisei.

Ed eccomi a Saint-Paul, con le spiagge sottovento dell’Étange Salé, Saint-Pierre, Saint-Joseph (la parte più a sud), Quai de Sel-Ancien Port (con il mare burrascoso), le colate laviche del Pitou de la Fournaise che arrivano fino al mare, le piantagioni di “vaniglia” ed infine la capitale Saint-Denis con gli allora suoi 100.000 abitanti. La “francese” Saint-Denis, in pratica (all’epoca, almeno) un piccolo angolo di Parigi nell’Ocerano Indiano, con l’imponente Cattedrale di San Dimitri, la Moschea Noor-e-Islam e la Brasserie de Bourbon.

Chi non visita questa particolare birreria e non assaggia la sua birra chiamata Dodo, non può assolutamente dire di aver visitato l’isola de la Réunion.

Al tavolo di un pomeriggio assolato mi ritrovai a parlare, in perfetto italiano, con Gérard Avanzini (dal cognome si capisce l’origine della famiglia), il mastro birraio. Una vita di avventure in giro per il mondo, la sua, prima di approdare a Saint-Denis e decidere di rimanere. A la Santé Gérard!

E poi c’era la cucina di madame Rocela. Tra reminiscenze francesi, cinesi, malgascie e indiane, i suoi piatti erano un rimescolarsi di culture gastronomiche diverse. Le portate a base di maiale, di pollame o di pesce erano accompagnati, il più delle volte, da riso, legumi, brèdes (ortaggi dell’Isola) e il pomodoro rogai, la salsa tradizionale. Il tutto lavorato con zenzero, zafferano e curcuma. I dessert erano principalmente a base di frutta: ananas Victoria, diverse varietà di banane, mango (oltre cinquanta tipi), litchi, guai ave, papaya. Tutti, è ovvio, molto “speziati”.

I capolavori di madame Rocela furono tuttavia due dolci. La prima fu quella preparata per il mio arrivo: la torta ti’son, fatta con farina di mais. La seconda, per la mia partenza: di patate aromatizzata alla vaniglia. Me ne preparò una intera da consumare durante la traversata di ritorno, a bordo del cargo Saint Joseph verso l’Isola di Mauritius con gli alisei contrari.

Durante il volo di ritorno, assorto nel ripensare ai momenti trascorsi a la Réunion, mi venne da soffermarmi sul nome di Madame Racela. Ebbi una folgorazione: l’anagramma del suo nome era “creola”.

Anche qui, i conti tornavano.