Francesco Carfagna, viticoltore del Giglio, s’è beccato 11 giorni di carcere e 8mila euro di multa per aver liberato dagli sterpi 100 mq di fosso. La storia è già nota. Ma quello che è sfuggito, ed è più grave, è che tutto il processo si è svolto, pur legalmente, a sua insaputa. Vi pare normale?
Da oltre un mese Francesco Carfagna, schivo e callido vignaiolo gigliese, noto ai cultori dell’Ansonaco e poco più, è salito alla ribalta delle cronache. Corrierone compreso.
Suo malgrado, però.
Il caso ha fatto infatti il giro d’Italia e non solo: dopo aver liberato dalla macchia, a mano ovviamente, 100 mq di un fosso di sua proprietà, si è visto condannare in contumacia a 11 giorni di carcere e ottomila euro di multa. Reato contestato e accertato: abuso edilizio.
Superata l’incredulità e senza aver ancora digerito lo smarrimento, ha fatto risapere cosa gli era successo. E ha sollevato parecchio rumore.
Poi ha preso carta e penna e si è messo a scrivere. Non per chiedere sconti di pena – doveva avere un permesso e non l’aveva, quindi sa di essere colpevole – ma per implorare il sistema che casi surreali come il suo non si ripetano a danno di altri. Nel frattempo ha ricevuto la solidarietà di tutti: Regione, Parco dell’Arcipelago, colleghi, giornalisti, agricoltori, gente comune.
Preferisco tornare ora sulla vicenda, dopo che la tempesta mediatica si è relativamente acquietata (sebbene la faccenda sia giudiziariamente ben lungi dal concludersi), solo per alcune riflessioni da una prospettiva un po’ diversa.
Ho conosciuto Francesco Carfagna una decina di anni fa.
Vignaiolo all’isola del Giglio, come detto, e poeta. O forse poeta e vignaiolo dovrei dire, viste le sue considerevoli frequentazioni letterarie del passato. Delle quali, forse per timidezza, lui tende però a schermirsi. Ma è stato anche – ipse dixit, stavolta – “professore di matematica per gli altri, capomastro per sè, ristoratore per tutti“. Per rendere l’idea del tipo, è pure uno che recita poesie ai filari (ma sottovoce perchè potrebbe dar loro noia, assicura).
Nel tempo gli ho dedicato (ad esempio, qui) vari articoli. Sia perchè fa vini interessanti (l’Ansonaco in primis, bello verace) in sè e per il modo in cui li produce, sui vigneti eroici gigliesi affacciati sul mare e recuperati uno ad uno a colpi di falce. Sia perchè vive in un posto da urlo ed è sul serio un personaggio fuori dalle righe: non nascondo infatti che su molte cose ci incontriamo a meraviglia.
Ecco: è a una persona del genere che hanno dato quel popò di sanzioni per aver liberato un fosso marginale dalla macchia che, a sua insaputa ma legge alla mano, era formalmente “bosco” e come tale protetto, in quanto tra i rovi c’era qualche arbusto di nessuna importanza. Arbusti frutto, sia chiaro, dell’ultradecennale abbandono e non dell’aborigena natura selvaggia del luogo. Di ciò però al mostro giuridico-burocratico nazionale non importa: c’è infatti una norma, che giustamente e fatalmente le autorità sono tenute ad applicare e che in effetti applicano, secondo la quale liberare un terreno già coltivato dalla vegetazione che vi è cresciuta spontaneamente rendendolo “saldo”, è reato. Per vegetazione, ripeto, si intendono piantine alte poco più di un metro e radicatesi in pochi anni su un suolo in precedenza coltivato per secoli.
Una vicenda già in sè pazzesca, delle tante a cui la follia italiana (chiamarla burocrazia è riduttivo, anche perchè nel caso la burocrazia è poca, sono proprio le norme ad essere assurde) quotidianamente ci sottopone.
Ad essa però se ne aggiunge un’altra, forse peggiore.
A prescindere dalla natura e dalla sussistenza del reato del quale il Carfagna si può essere macchiato, l’iter processuale si è compiuto per intero a sua insaputa.
Francesco, cioè, è stato condannato in contumacia. Nessun avviso di garanzia, nè interrogatorio, nè raccomandata, nè avviso. Nulla. Una mattina ti arriva a casa una a/r con dentro un decreto di condanna penale. Così, come se nulla fosse. E tu sai tutto a posteriori, senza aver avuto nemmeno la possibilità di difenderti.
Mi dicono, e non ho motivo di dubitarne, che tutto ciò sia legale. Ovviamente puoi fare ricorso, sperare di vincerlo (il che, vista la gustizia italiana, non è detto per niente), pagare di tasca tua avvocati e bolli che nessuna successiva assoluzione potrà farti rimborsare. Senza contare i danni morali, le ansie, la frustrazione, la perdita della serenità. Se invece ti va male, la fedina è macchiata per sempre.
Ecco, mi chiedo se un sistema del genere abbia un senso. E quanto sia inesorabile quell’ingranaggio kafkiano e perverso che, se per sfortuna ti ci si impiglia la manica della camicia, ti stritola senza che nessuno possa più fermarlo.
E ora, inquadrato il caso, voglio chiudere raccontando una cosa che subito mi colpì di Francesco Carfagna.
Passeggiavamo sul primo ettaro di vigna che al Giglio lui aveva recuperato rifacendo a mano, con sforzo enorme, i muretti a secco. Inevitabile: il luogo era così angusto e scosceso da escludere qualsiasi intervento meccanico. “Togliere i rovi col tosaerba e lavorare la terra con la motozappa sarà stato un lavoraccio“, gli dico. E lui: “Macchè tosaerba e motozappa: il rumore disturba le viti. Ho usato solo zappa e falce“.
Ancora non sapevo che avevo di fronte un vandalo abusatore della natura.