Dove l’Armando è il Castagno, sommelier, storico dell’arte e divulgatore del vino, autore del bel volume celebrativo pubblicato nel 2016 dal Consorzio della Vernaccia per celebrare il 50° della doc. E proprio domani c’è l’anteprima 2017 del più famoso bianco toscano.

 

Nel 1966, la Vernaccia di San Gimignano fu il primo vino italiano a Denominazione di Origine Controllata.
Il consorzio di tutela nacque sei anni dopo, nel 1972.
A mezzo secolo di distanza da quella doc ha visto la luce, a suggello dei festeggiamenti ufficiali protrattisi per tutto il 2106, un bel volume celebrativo affidato alla felice penna di Armando Castagno e all’obbiettivo di Bruno Bruchi.
Volume che adesso abbiamo tra le mani.
Il grande rischio di queste pubblicazioni è soprattutto quello di essere fini a se stesse e, perciò, inutili.
In questo caso il rischio era perfino doppio, perchè dietro l’angolo c’era anche la minaccia della retorica e della cartapesta legate alla “Manhattan del Medioevo” e alle altre amenità tanto care al turismo di massa che, per molti mesi l’anno, ammorba la cittadina valdelsana.
Il pericolo è stato però aggirato affidando alla parte iconografica il compito di rimarcare le suggestioni monumentali e paesaggistiche e affidando invece il cuore del volume ai ricordi di dodici personaggi-chiave della storia sangimignanese, vinicola e non, dal 1966 ad oggi: sindaci, cantinieri, produttori, presidenti del consorzio.
Il tutto poi cucito, assemblato, sviscerato, raccontato, sia dal punto di vista tecnico che culturale, da un autore proteiforme come Armando Castagno. Il quale, oltre ad essere un degustatore di vaglia e un divulgatore di primo piano del vino, è anche uno storico dell’arte e perciò capace più di tutti di disvelare al meglio i legami profondi ma a volte sottili tra città e campagna, vino e cultura locale, storia e terroir, memoria e attualità, annate e suoli.
Particolarmente interessante, a mio parere, la sezione del libro in cui Castagno (ma “lungi dall’idea di effettuare un tentativo di zonazione“, come egli stesso precisa) suddivide l’area del comune all’interno del quale è possibile produrre Vernaccia in 28 unità territoriali omogenee in termini geologici, paesistici, altimetrici e storici, complete di cartina e distribuzione delle aziende produttrici: il risultato è un mosaico sociogeografico che scompone e ricompone il comprensorio tenendo conto tanto dei fattori naturali che di quelli artificiali (ad esempio le infrastrutture, i toponimi, etc) e restituendo così un “labirinto” tanto complesso quanto affascinante nella sua genesi e nelle sue interrelazioni, “tali in molti casi da spiegare perfino aspetti sensoriali del vino“.
Insomma il potenziale enomattone non solo non si è rivelato tale, ma si fa latore di un modello di esperimento, replicabile anche altrove: provare a destrutturare sulla carta un territorio vinicolo, suddividerlo in piani tematici e quindi a riassemblarlo tenendo conto di variabili e connessioni meno ortodosse o inusuali.
Roba su cui riflettere davanti a un bel bicchiere di Vernaccia, si capisce.