In altri tempi avrei scomodato l’ironia e mi sarei richiamato alla Batracomiomachia. Ma stavolta i toni sono troppo alti, i giochini troppo spudorati e lo squallore troppo insopportabile. Tutto per un misero gioco di correnti di cui tutti siamo stufi.
Qualcuno la chiama democrazia. Altri, “gioco democratico”. Consisterebbe nel fatto che chi ha la maggioranza governa.
Facile a dirsi. La maggioranza di che? Di voti? La storia dimostra che non funziona. Di intelligenza? Magari, ma tutti pensano di essere intelligenti.
Così dominano le correnti. Cioè i partiti. In quanto tali o, se meno confessabili, in quanto fazioni intestine. Aggregano, si muovono a blocchi, fidelizzano, creano militanti. Spesso acriticamente.
La sorte dei rappresentati è nelle loro mani. Anzi nella mani dei vari capataz. E non è un bel vivere, nè un bel vedere.
Prendiamo noi giornalisti.
Una categoria senza capo nè coda, ma contraddistinta per avere da un lato un Ordine di cui i dilettanti (il che non vuol dire i pubblicisti, ma gente che fa un altro lavoro e il giornalista non lo fa per niente) compongono una quota ormai decisiva, per non dire una maggioranza relativa, e dall’altro un risibile sindacato che, autodefinendosi unitario, opera invece come unico: nel senso che non ammette alternative e si occupa, o è capace di occuparsi solo, di una minoranza dei presunti assistiti, dei quali peraltro riunisce una percentuale modesta e nel caso degli autonomi, cioè i più bisognosi di tutela, modestissima.
Due mondi speculari, paralleli, espressione della stessa anacronistica ma istituzionalizzata realtà normativa, vasi comunicanti per decenni adusi a un complice e reciproco travaso di poteri, cariche, amorosi sensi. Nonchè cencellianissimi nelle logiche di gestione della cosa comune. Comune, sì, ma “loro” per definizione. Un sistema sul quale le correnti stanno a cavalcioni e di cui sono il mastice più tenace.
Il tempo passa, però. E il mondo, lentamente quanto inesorabilmente, muta.
Solo l’inane popolo dei giornalisti (rectius: i suoi rappresentanti) non se ne avvede.
Continua a credere, miope come una talpa e spesso accecato dai suoi stessi portavoce, in una realtà immutabile. Tollera ed anzi coltiva al suo interno, concupiscente di quote e di tessere, il cancro del giornalistificio, un’ipertrofia letale che, favorita da norme stravecchie che il parlamento ben si guarda dall’aggiornare, diluendo la professione non solo ne decreta la fine, ma ne altera dal profondo e in silenzio gli equilibri.
Vi ricordate la canzoncina di Rita Pavone-Gianburrasca? “E’ storia del passato / papà me l’ha insegnato / che il popolo affamato / fa la rivoluzion…“.
Ecco, siamo arrivati al paradosso che il popolo affamato, alias noi, ormai nemmeno si ribella, ma si fa infinocchiare dagli abbagli e dalla propaganda, cioè dagli slogan, dall’assurdità di una guerra tra bande in cui tutto, ma proprio tutto – toni, strategie, argomenti, tattiche, appelli, comizi, contratti e relative trattative con addentellati vari, incluso l’equo compenso – è solo strumentale alla contesa in atto.
Da una parte l’OdG del generale Iacopino, uscito vincitore a sorpresa da una tenzone elettorale dove, per la prima volta, una massa raccogliticcia ma imponente di forze eterogenee ha battuto le truppe cammellate della giunta militare detentrice da tempo immemorabile della roccaforte sindacale, sponda utilissima al mondo politico per orientare i consensi e distribuire patenti di legittimità. Dall’altra, la giunta medesima, ancora sbalordita per la sconfitta ma coesa assai e per nulla disposta a mollare l’osso.
Ora, come certi altopiumati ufficiali sui punti di frontiera sulle montagne tra India e Pakistan, le compagini avversarie si guardano in cagnesco biascicandosi l’un l’altra insulti ed accuse, rivendicando benemerenze, mettendo in campo le divisioni corazzate e richiamando, dalle regioni, perfino i riservisti. Una specie di guerra civile con la penna al posto dei fucili.
Sullo sfondo di tanto sfacelo, assistiamo così, immobili, allo sprofondamento del giornalismo in se stesso, nell’attesa annoiata di una morte che, senza gloria, si consumerà tra la parodia dell’equo compenso che fu e il dramma di un contratto destinato a nascere abortito.
In quest’apocalisse, per favore, risparmiateci almeno l’obbligo di assistere alla nostra stessa sepoltura.