Venerdì 9 luglio, al tramonto, sulla collina che ospita l’installazione del maestro francese, lo show gratuito con Chloé Moura e Mathieu Hibon: musica dal vivo di Furio Di Castri, testi di Antonio Prete, costumi di Denise Bourillon, regia di Boris Vecchio, organizzazione di Sabrina Barberi, direzione artistica Alessandra Rey e Jean-Paul Philippe prodotto dall’Associazione Site Transitoire dall’ Associazione Culturale Sarabanda. Uno sguardo a 360° sul paesaggio magico delle Crete. Qui sotto il mio testo introduttivo al territorio e alla grande mostra senese dedicata a JPP nel 2008.

“La mia prima volta nelle Crete – rievoca Jean Paul Philippe socchiudendo gli occhi – fu quando stavo cercando dei blocchi di un tipo speciale di travertino, che mi aveva sedotto per il colore e per l’odore: era quello di Rapolano. Lavorandolo sprigionava un profumo intenso di terra bagnata. Stavo progettando una grande scultura che aveva come soggetto il gioco del mondo e questa pietra mi sembrava la più adatta, ma ero curioso di vedere da quali cave provenisse. Venni con Sem Ghelardini, una mattina indimenticabile in cui prendemmo una piccola strada che attraversava la campagna. La singolarità di quel paesaggio m’impressionò. Fu allora, prima ancora di arrivare a destinazione, che decisi di venire un giorno a lavorare qui. Credo di non aver mai provato tanta complicità come con la bellezza austera del paesaggio di quel mattino”.
Philippe insomma non ha dubbi quando, ondeggiando sul filo della memoria, deve individuare il suo personale big bang, l’attimo inafferrabile di bellezza estatica che segnò l’inizio del suo percorso di arte e di vita in terra senese. Un po’ banalmente lo si potrebbe definire colpo di fulmine. Ma lui sa bene, come lo hanno saputo i tanti viaggiatori rimasti folgorati al loro passaggio, che si tratta di ben altro. Forse un pedaggio da pagare al destino, forse una forca caudina imposta dall’animus di questo paesaggio feroce divorante. Forse una sorta di sindrome di Stendhal virata al georgico. O, ancora, un sintetico flashback di immaginario collettivo.
Era la fine dell’estate del 1988. Più o meno i giorni in cui – se non è vero, piace crederlo – un altro grande francese, Pasqual Quignard, dava alle stampe un romanzo (poi tradotto in un memorabile film) dal titolo singolarmente profetico e che per qualche misteriosa ragione, anche nello spirito, si attagliava alla perfezione all’avventura creativa che avrebbe condotto Philippe alla realizzazione del “Site transitorie”. Tutte le mattine del mondo, si intitolava quel romanzo, “una grande metafora sul valore assoluto e non strumentale dell’arte”.
Impossibile adesso, di fronte all’immagine della “piccola strada” che si inoltra attraverso le Crete e al sentore pungente di “terra bagnata” sprigionato dal travertino ferito dallo scalpello, non rievocare le immagini di quei mattini (o anche di certe nuits inoubliables care a Emile Cioran) in cui al risveglio l’eroe del romanzo, l’arcigno signore di Sainte Coulombe, trova sbriciolate dalle mani impalpabili della nostalgia, tanto struggente da trasformarsi in materia, le cialde che nella notte aveva offerto idealmente alla moglie defunta: dove le cialde cinematografiche finiscono d’incanto per assomigliare alle Crete accartocciate ed aspre, violacee e lucide di certe albe settembrine, dopo che l’aratro è passato e le prime brume autunnali lasciano sul suolo scabro un velo fibroso di nebbia. “Probabilmente era la fine dell’estate, il momento in cui – rammenta ancora Philippe – le terre sembrano lunari. La visita delle cave mi confermò la prima impressione. Decisi di ripartire con i blocchi per realizzare un’opera chiamata Entre Terre et Ciel…la tour méridienne, che oggi è installata a Bruxelles. Fu proprio a causa, o grazie, alle disavventure di questa scultura che è nato tutto. Mi fece subito desiderare di continuare l’esperienza che realizzarla mi aveva dato: lo spostamento dello spettatore nello spazio all’interno stesso dell’opera. Il Site transitoire è nato proprio così. L’utopia collettiva di una scultura avviata per un bisogno interiore, senza committenza e senza avere la minima idea di dove un giorno l’avremmo installata. Men che meno su una collina tra Leonina e Mucigliani”.

L’itinerario che da Siena porta attraverso le Crete non è del resto un itinerario comune. Forse non è neppure un itinerario. È casomai il viaggio tra tante diverse dimensioni che si assommano e si sovrappongono. Per chi viene dalle suggestioni dell’Allegoria del Buon Governo del Lorenzetti, avventurarcisi è come penetrare fisicamente nelle quinte del primo grande affresco a tema civile del medioevo. Per chi viene dalla modernità più esplicita, è come affrontare le simboliche Colonne d’Ercole di un luogo primordiale, graffiante al pari degli artigli di una fiera, crudo e abrasivo. È il paesaggio “senza dolcezza d’alberi” di Luzi, ma anche quello senza requie né salvezza dei romanzi tozziani, spaccato dal sole, sottomesso a fatica da mezzadri traboccanti di rancore, su cui nulla di gentile possono portare neanche le vette vibranti dei pioppi selvatici sulle prode dei fossi. E nel suo snodarsi, come un sazio serpente, tra quei poggi, la via Lauretana Antica ne riassume in qualche modo l’intima contraddizione, il restare sospeso tra l’estasi di una bellezza accecante e gli spigoli di una terra dolorosa, incisa ora dai raggi solari e ora dall’acqua implacabile, con i calanchi e gli orridi pieni di macchia, le zolle riarse, i boschi esangui. Belle da guardare e ruvide da toccare, le Crete si offrono così allo sguardo, adatte a un viaggio in carrozza alla quale i cristalli non impediscano il penetrare degli odori, del sentore della finissima polvere di argilla o delle vampate di calore che di solito accompagnano il viandante intento a sporgersi per osservare il paesaggio.
Chi lo conosce sa che il colle e il borgo di Leonina, come i tanti altri luoghi spesso ridotti a toponimo che punteggiano il territorio, è una presenza quasi casuale, transeunte, legata non solo all’incessante modificarsi plastico del suolo (“Non di sasso, che l’alpe al ferro indura, ma costrutto di tufo e creta molle” lo descrisse non a caso, cinque secoli fa, un viaggiatore d’eccezione come Torquato Tasso), ma dell’economia agricola e della demografia: Mucigliani, Vescona, Fontanelle, San Martino in Grania, Monte Sante Marie, Rencine testimoniano l’esistenza di una maglia viaria ormai scomparsa e di un contesto sociale tramontato col declino mezzadrile, risorto poi – anche se fortunatamente non del tutto degenerato – nella cultura del rustico di massa e del paesaggio-cartolina.

È in mezzo a tutto ciò che il Site si trova. Chi ha gambe buone lo può raggiungere da ovunque, calcando impalpabili tratturi o assecondando l’idea di sentieri ormai impercettibili, dalla via maestra o seguendo la traccia delle greggi. La sedia, la finestra e il sarcofago – i tre elementi di basaltina etrusca del sito – arrivano all’occhio del visitatore un po’ a sorpresa. Ma non potrebbero essere che lì, in alto sulla colline: defilati, non ritirati. Transitori, ma non effimeri. È ancora una volta la voce narrante di Jean Paul Philippe ad accompagnarci: “Era quello lo scenario ideale, per la sua austera malinconia e per quegli orizzonti che lì sembrano illimitati. Anche se in realtà non avevo deciso ancora d’installare la mia scultura in vetta a un poggio. In un primo momento – insiste – avevo desiderato soprattutto subire il paesaggio, lavorarci e lasciare le emozioni affiorare. Ma la scelta del luogo è stata una meravigliosa occasione per percorrere tutti i sentieri possibili che solcano le Crete. Non era facile riuscire a trovare un terreno pianeggiante e accessibile per piantarvi questo capriccio. Bisognava anche tenere conto dell’orientamento del sole. È stato solo dopo diversi mesi di ricerca che ho scoperto Leonina, allora completamente abbandonata. La prima installazione avvenne nel settembre del 1991. Un settembre umido, bisognava fare i conti con il fango. Dopo molti sforzi tutti gli elementi erano a posto. Mi accorsi però che alcuni non avevano le dimensioni ideali. Così qualche mese dopo, con il terreno gelato, fu necessario fare ridiscendere gli elementi imperfetti per ripensarli”. Le stagioni che mutano, il clima che muta, il suolo che muta senza che il genius loci possa mai cambiare.

Aldilà e oltre tutto questo, al capo opposto di quei cavalloni argillosi che paiono ribollire di un loro furore interiore (nessuna brezza o procella sembrerebbe infatti in grado di poterli nemmeno scalfire), c’è Asciano.
È il capoluogo delle Crete, il baricentro storico e culturale del territorio, il crocevia delle storie e delle suggestioni che, soavi, aleggiano come nuvole all’orizzonte. Eppure, agli occhi dell’affaticato viaggiatore – o almeno nella dimensione psicologica del suo spostamento nello spazio – più che un luogo di transito esso appare l’approdo finale, la meta: un punto oltre l’immenso mare geologico in cui riuscire finalmente a riprendere fiato dopo la tempesta scandita dai tornanti della Lauretana. Si irraggiano da qui, coll’autorevolezza che competerebbe ad antiche strade consolari, le vie che in un reticolo di antichissime direttrici portano agli altri borghi del comprensorio: Buonconvento, Monteroni, San Giovanni d’Asso, Rapolano. Tocca a loro circoscrivere le Crete, cingerle, segnarne il confine, limitarne lo sciabordare. Ma tocca ad Asciano marcarne il cuore.
Vi si arriva al termine di curve e saliscendi, “discese ardite e risalite” che, come una colonna sonora, solleticano la memoria fotografica. La facciata gotica della chiesa di San Francesco che si eleva su un’altura, la sagoma della Basilica, la cinta muraria trecentesca danno l’impressione di un paese-guardiano che, come un fedele vassallo, sta in agguato, pronto allo scatto a difesa delle argille infuocate che lo separano da Siena e pare affiorare dalla campagna senza sussulti, emergendo da una terra stanca: quasi che il Site che ci siamo lasciati alle spalle e che sentiamo ancora alitare sul collo fosse la sua estrema appendice, quasi una protesi.
E proprio nel modo in cui l’anima megalitica del Site Transitoire si fa piccola piccola, fino a mimetizzarsi e scomparire, nella grandiosità del paesaggio circostante, così, in un’inversione simbolica delle proporzioni, nel museo di Palazzo Corboli i suoi simulacri in miniatura si propongono come un sommesso pro memoria al cospetto dell’immensità dei capolavori che trovano lì ospitalità: così la Sposa delle Crete, il primo bozzetto preparatorio realizzato in gesso da Jean Paul Philippe e il bozzetto vero e proprio del Site, stavolta in bronzo, si pongono idealmente in dialettica con l’arte espressa e metabolizzata nei secoli dal territorio. Un elemento coesivo che non era sfuggito all’artista francese al primo impatto con l’allora sconosciuto ambiente delle Crete: “In quel paesaggio incontrai lo sguardo – confessa a un indiscreto intervistatore – di tutti i pittori del Quattrocento che mi avevano così colpito nel mio primo viaggio in Italia. Oggi molti artisti, provenienti anche da lontano, hanno scelto di vivere qui. Ma i veri incontri sono molto rari. La scelta che ho fatto passando da queste parti era di trovare a questa mia solitudine il paesaggio che le conveniva. Senza essere scontroso, mi sento in accordo con il silenzio. Sono stati casomai gli eventi nati intorno al Site transitoire a favorire gli scambi con artisti che coltivano discipline diverse dalla mia: scrittori, attori e musicisti. Ed è con loro che spesso è nata una collaborazione”.

In questa sorta di progredire a ritroso nei meandri dell’anima che il viaggio nel cuore delle Crete Senesi rappresenta, il cammino trova la sua conclusione naturale a Rapolano, agli antipodi del “grande mare di argilla” in cui – un po’ per caso e un po’ per destino – Philippe ha scelto di vivere. È il luogo in cui tutto è nato e in cui l’artista ogni volta ritorna, senza mai riuscire a scoprire fino in fondo, in un moderno funestus veternus, se la sua patria sia questa o la natia Parigi: l’altalena dei sentimenti, il “profumo di terra bagnata” del travertino appena tagliato, la pietra calcarea sempre amata e infine tradita, le cui pareti alte e lisce occhieggiano alle finestre del podere, antico almeno quanto il mondo, dove Jean Paul vive e lavora. “Durante la realizzazione del Site avevo sì deciso di vivere dentro quel paesaggio, ma ovviamente non sapevo che sarei rimasto anche dopo”, racconta. “L’opportunità di essere ospitato in un grande podere vuoto trasformò tuttavia il mio modo di vivere. La vecchia casa è diventata poco a poco il mio atelier, il mio luogo di vita. I primi due anni trascorsi lì, in voluta solitudine, restano indimenticabili. L’amicizia con il vecchio fattore contribuì molto al mio amore per il territorio. Dopo la sua morte ho scoperto che aveva ordinato che mi fosse data libertà di rimanere, “perché la casa era amata da colui che l’abitava”. Sono passati ormai quasi vent’anni e ci vivo intensamente come il primo giorno. I rumori della natura e quelli più lontani delle cave mi cullano nell’illusione che potrò rimanerci ancora a lungo. E non è improbabile che le proporzioni di una porta e di un corridoio di quella casa mi siano servite per concepire il Site transitorie”.

Luogo di incontri e di non incontri, di opere d’arte che si radicano nel territorio fino a diventarne elementi costitutivi, ancora oggi le Crete Senesi si offrono come l’invito al cammino, alla scoperta, alla palingenesi e forse a una dimensione sobria dell’esistenza. E in quest’infinito intrecciarsi di fili invisibili che, anche in un territorio così apparentemente vuoto e aspro, legano tra loro le vicende umane e i frammenti di vita destinati a divenire letteratura, è di nuovo dalla douce France che viene la tentazione di rintracciare suadenti correlazioni: “Un giorno, mentre andavo verso il Site – racconta Jean Paul – ho scorto in lontananza, vicino alla finestra di pietra, una sagoma. Si trattava di un giovane cipresso, piantato di fresco. E tutto lasciava supporre che sarebbe stato seguito da altri, visto che c’erano diverse buche. La cosa mi rese agitato. Poteva essere stato il comune, o il proprietario dei terreni. Poiché dovevo partire, incaricai un’amica di indagare su quella misteriosa piantumazione e lei, allora, ebbe l’idea di lasciare appeso a un ramo un messaggio scritto da me per il “piantumatore sconosciuto”. Con grande sorpresa, egli rispose: si trattava di un viandante che, trovando le pietre abbandonate al vento, aveva sentito il desiderio di proteggerle con il semicerchio di cipressi che nelle Crete spesso si trova intorno alle costruzioni più esposte. Ma, compreso che la sua iniziativa nuoceva alla scultura, espiantò tutto. Io rimasi profondamente toccato dalla gratuità del suo gesto: come il mio, entrambi dicevano fino a che punto c’eravamo appropriati di questo luogo. Così nacque un’amicizia. E da allora mi riceve affettuosamente nel suo bar di Taverne d’Arbia”. Una terra spoglia, un uomo solitario, un grande sogno, un incontro casuale. L’aveva già raccontato in un romanzo, anni prima, Jean Giono: “L’uomo che piantava gli alberi”.