E’ sottile e impalpabile il confine che separa il cosiddetto travel writer dallo scrittore di viaggio. Due categorie che tanto affascinano quanto, spesso, rischiano di trasformarsi nel puro frutto di una suggestione. Sulla scorta di un interrogativo lanciato tempo fa dal giornalista e scrittore (di viaggi e non solo) Paolo Ciampi, ecco alcune considerazioni sulla qualifica più ambita da chi, per mestiere, viaggia e scrive.

Chiamiamoli misteri della semantica, chiamiamole sfasature della lingua. Ma la traduzione italiana dell’espressione “travel writer” – con la quale in inglese si indica qualcuno che “scrive di viaggi”, più in senso di cronaca che di letteratura vera e propria, però – non corrisponde a ciò che noi intendiamo per “scrittore di viaggio”.
Il travel writer è uno che per mestiere viaggia e scrive. Lo scrittore di viaggio è essenzialmente uno che per mestiere scrive, trattando più o meno spesso argomenti odeporici.
Il primo può essere un viaggiatore, un giornalista, un esploratore che racconta le sue avventure. Il secondo è prima di tutto un uomo di lettere, che passa più tempo a tavolino che in giro per il mondo. Oppure uno che sì viaggia spesso, ma a prescindere dall’argomento della sua scrittura. E che di viaggi (fantasiosi) scriverebbe comunque, anche senza muoversi da casa.
Nemmeno il giornalista che si occupa sic et simpliciter di viaggi può tuttavia essere automaticamente definito, per questo, un travel writer. Ci si potrebbe sbarazzare del problema dicendo che sono gli altri a sancire se, in virtù del tuo prestigio, le tue capacità, il tuo percorso professionale, il tuo pubblicato, tu debba essere classificato tale. Peccato che quella di travel writer sia una qualifica che nel 99% dei casi qualcuno (quorum ego) si autoattribuisce, convinto ovviamente di meritarsela.
Tutti questi distinguo apparentemente oziosi mi sono tornati in mente ripensando alle mille domande postemi negli anni da tanti aspiranti giornalisti di viaggio e a un interrogativo postato una decina di giorni fa sul suo blog “I libri sono viaggi” (qui) dall’amico, collega e scrittore fiorentino Paolo Ciampi. Il quale, prendendo spunto da una frase tratta dal volume di Lawrence OsborneIl turista nudo” (Adelphi), si chiedeva: “ma c’è bisogno degli scrittori di viaggi?”. La frase è la seguente: “Il turismo ha generato un rispettabilissimo numero di attività subordinate. Tour operator, albergatori, guide, direttori di resort, naturalmente, ma anche quegli esseri che è uso definire, con un’etichetta a dir poco lugubre, “scrittori di viaggi”. La cultura tecnocratica preferisce infatti far seguire la qualifica di “scrittore” da un aggettivo, a garanzia del fatto che l’individuo in questione non è un ciarlatano, cioé un povero disgraziato con una sua voce, e soprattutto non è, orrore degli orrori, uno scrittore e basta. Il bello è che “scrittore di viaggi” lo si diventa d’ufficio, appena pubblicato un rigo avente per oggetto una città straniera“.
Il quesito ha senza dubbio un senso, ma io lo riformulerei circoscrivendolo meglio. Ovvero: che bisogno c’è di specificare come “travel(er)” o “di viaggi” uno scrittore?
Le risposte a mio parere sono due, a seconda che ci si riferisca alla prima o alla seconda categoria. Per quest’ultima non c’è in effetti alcun bisogno dell’estensione specificativa, proprio perché l’attività dello scrittore è produrre letteratura, una letteratura di cui l’argomento può più o meno occasionalmente essere il viaggio. Ce n’è bisogno invece nel primo caso, perché qui il viaggio non è solo il tema dello scrivere, ma innanzitutto lo stato d’animo, la fonte dell’esperienza da cui lo scrivere scaturisce. Il viaggiare è in questo caso il mood, lo state of mind che guida chi scrive. Il travel writer può dunque fare letteratura o semplice informazione, ma la sua ispirazione parte comunque, in modo diretto o indiretto, dall’esperienza reale del viaggio e dalle sensazioni, contesti che esso genera. C’è insomma sempre una parte di vissuto nello scritto del travel writer. Cosa che può non esserci, e sovente non c’è, in quello di uno “scrittore”.
E se nulla vieta, per paradosso, che la stessa persona sia oggi l’uno e domani l’altro, mai però egli potrà essere tutte e due le cose contemporaneamente.
Si auspicano dibattiti e controdeduzioni.