di URANO CUPISTI
Quella del capodanno 1974 era una città cupa, abitatata da gente sfuggente. Ci ero andato per trovare i suoni degli zingari, trovai bettole dove la malinconia dei violini era quella di tutti, o quasi.

 

Ho fatto in modo che un mio recente viaggio attraverso le regioni vinicole ungheresi coincidesse con un un “ritorno a Budapest”, donde mancavo da quasi mezzo secolo.

Inutile dire che l’ho trovata molto diversa da quella del lontano capodanno del 1974, trascorso in una capitale dalla doppia anima.

A farmi decidere di andare a Budapest era stata la musica. Anzi il violino, quello zigano. Mi ero fissato infatti che volevo ascoltarne uno vero, originale, suonato con lo spirito dei luoghi e quindi dove meglio che lì?

In realtà non fu affatto facile nè cercare nè trovare, nell’allora grigia Repubblica Popolare d’Ungheria, una bettola ova ancora aleggiasse l’animo zingaro.

Tutti mi rimandavano al Teatro Budai Vigadó, in piazza Corvin, dove i valori e l’essenza dei nomadi ungheresi di fatto erano nascosti nei canti e balli del gruppo folcloristico socialista di Stato, che aveva il solo scopo di magnificare le sorti luminose e progressive del nuovo corso magiaro.

Io però volevo qualcosa di diverso. E la caccia rese indimenticabile la mia visita nella città magica dai due volti e dalla doppia anima, separati dal maestoso Danubio.

Di qua trovai Pest, ricca si di palazzi ottocenteschi “normalizzati” da uno stile socialista sempre più invadente e accerchiata da una periferia con i numerosi casermoni in stile sovietico.

Di là, la più antica Buda, di origine romana e poi asburgica ma con qualche ricordo architettonico ottomano, che mi seppe incantare per le sue imponenti bellezze e per quella sua atmosfera vagamente malinconica e al tempo stesso solenne. Fu lì che poteri rintracciare gli artisti, i poeti, i musicisti, i narratori spesso nascosti nelle taverne fumose lungo le viuzze che portano al Castello.

Riuscii a riannodare i fili della ricerca grazie ad un libraio di Király Utca, nel cuore pulsante del quartiere ebraico: “Prova in qualche vecchia birreria defilata, posti che però nessuno, ufficialmente, ti  indicherà mai”, mi suggerì. E con la mano mi indicò sulla mappa della città il quartiere di Ferencyvaros, lungo il Danubio a sud del Ponte delle Catene.

Grazie a questa dritta potei scoprire un piccolo mondo rimasto un passo indietro nel tempo. Un posto dove incontri chi si è perso e cerca di ritrovarsi dentro a un boccale di Pils o a un bicchiere di vino del Lago Balaton. Un posto dove, prima di parlare di occidente e di occidentali, ci si guardava circospettosamente intorno.

In Pipa Utca i muri erano tappezzati di manifesti della propaganda comunista, messi lì solo per scena però, perchè in realtà si ascoltavano le musiche zigane suonate dai rom ungheresi, mai non del tutto integrati nell’avventura socialista e per questo malvisti, sgraditi al regime. Il tutto al cospetto di un rosso di Csopak, pane con lardo, paprika in polvere e cipolla rossa. “Era ora“, dissi tra me e me. Fu un turbinare di chitarre, violini ed emozioni.

Avevo di fronte un’orchestra gitana di quattordici elementi, con un repertorio basato su balli e coreografie tradizionali eseguiti da cinque ballerini in costume. Lì volevo arrivare, lì ero arrivato dopo un lungo e determinato cammino.

Budapest però, naturalmente, non fu solo violini zigani.

Visitai il Palazzo Reale (Kiralyi Palota), il Palazzo del Parlamento, la Basilica di Santo Stefano, il Ponte delle catene, il Parco del Varosliget, l’Isola Margherita e la centrale via Andrassy prima di godermi il meritato riposo immerso nelle calde acque delle Terme Szechenyi. D’inverno, con temperature abbondantemente sotto lo zero, galleggiare in una delle piscine esterne fu particolarmente piacevole.

A questo punto dovrei parlare della gente, degli ungheresi che incontrai. Ma non ci fu alcun incontro significativo. Me li ricordo tutti sempre a capo chino, frettolosi, molto cortesi ma estremamente sfuggenti, come se si sentissero sempre osservati o spiati nei loro comportamenti. Parevano rassegnati al ruolo di pedine in un ingranaggio che doveva sempre essere in movimento per il “superiore bene comune”.

Fu allora che ebbi la sensazione che la malinconia dei violini zigani fosse, almeno un po’, anche la loro.