di URANO CUPISTI
Nel ’71 salgo sulla mia Kadett Rally per circumnavigare i confini italiani a nord-est: cronistoria di un viaggio dagli interrogatori titini alle nappe rosse delle pulzelle bavaresi, via Vienna.

 

Fare autostop non è mai stato semplice. Nemmeno negli anni “eroici”, come il 1971. E io stesso, pur essendo un viaggiatore incallito, non ho mai amato quell’espediente così in voga all’epoca.

Quindi, quando decisi di partire per un viaggio a quattro ruote nella Mitteleuropa d’oltre confine, di auto scelsi la mia: un’Opel Kadett Rally. Quella, si diceva, su cui “una ragazza non salirà mai, ma che di sicuro ti porta a destinazione“. Obiettivo la Slovenia (allora ovviamente facente parte della Federazione Jugoslava), Austria, Germania. Baviera, per la precisione. Quindici giorni per mete ancora ben lontane dal business turistico.

Tutto, si capisce, su base rigorosamente cartacea: mappe stradali, itinerari di massima ricavati dai tomi spulciati in biblioteca vomunale, nessuna conoscenza delle lingue che avrei incontrato e tanta passione per andare alla scoperta.

Passai la frontiera a Ferneteci, conosciuto ai più come Opicina, e proseguii  verso Postumia. Non fu così facile. L’allora polizia jugoslava, chiamata volgarmente e minacciosamente “titina”, incuteva una certa ansia, quando non esplicito timore, con quei suoi sguardi carichi di sospetto. Così, il risuonare del timbro sul passaporto fu un suono liberatorio: non nascondo che per molti metri osservai nel retrovisore per capire se fossero in corso ripensamenti sul mio lasciapassare.

“Qui c’è un nuovo mondo, questo è il paradiso!” pare abbia detto Luka Cec, lo scopritore delle Grotte. La prima visita fu così frettolosa, e così grande la loro magnificenza, che mi risolsi a rimanere altri tre giorni per percorrerle a piedi e gustarmele tutte. In particolare mi piacque la grotta del Proteo, affascinato da quel curioso animaletto anfibio, bianco e completamente cieco, lungo circa 30 centimetri, che scoprii essere il più grande tra gli animali ipogei.

La tappa successiva fu Lubiana, a una cinquantina di chilometri dalle grotte. Colsi subito l’atmosfera imperiale dei luoghi, anzi asburgica, sebbene le stelle rosse fossero ovunque. Le straordinarie architetture di quei palazzi celavano un ricco patrimonio culturale di cui mi innamorai immediatamente. Tra monumenti, musei e gallerie d’arte, le cose che però ricordo di più furono i ponti e la magnifica Biblioteca: non mi ero mai imbattuto in un’imponenza simile. Quattro piani, quattro ali e due cortili interni. La facciata era decorata da mattoni rossi e blocchi sparsi qua e là in modo apparentementre casuale. Varcare la soglia d’ingresso fu come entrare  nel mondo del sapere. Salii la monumentale scalinata centrale in marmo scuro, con le trentadue colonne nere che precedevano una grande sala di lettura con le pareti di vetro. La luce naturale inondava gli spazi, sbattendomi in faccia la più ampia raccolta di libri del paese, inclusi numerosi manoscritti medievali e opere a stampa rinascimentali.

Quella vista mi aiutò solo in parte ad affrontare la strada che portava da Lubiana verso Dravogad e il confine con l’Austria, che sembrava non finire mai. Ma ancora più infinito fu l’interrogatorio subito dai poliziotti della dogana comunista. Tutto muoveva da una fondamentale domanda: “Che ci fa qui una macchina con targa italiana ? Indagare, indagare!

Così ci vollero quattro ore di domande martellanti, ripetute telefonate per accertarsi che il visto fosse autentico, un minuzioso controllo del bagaglio e in particolare della macchina fotografica. La mia “liberazione” fu ottenuta solo dietro consegna e confisca dei rullini e di tutto ciò che loro ritennero compromettente. Era il prezzo da pagare per percorrere i cinquecento metri che separavano la stella rossa dall’aquila austriaca. Vienna mi stava aspettando e la mia voglia di raggiungerla bolliva almeno quanto l’acqua nel radiatore della mia Kadett. Quando, però, si dice la fortuna: il problema meccanico, ossia la cinghia del ventilatore allentata, si palesò appena passato il confine, ove trovare i pezzi di ricambio di un’auto tedesca era semplice e veloce. A senso di marcia invertito, forse sarei ancora lì ad aspettare tra i nervosi gendarmi slavi.

La capitale era proprio come la immaginavo. Una città vivace, ricchissima di tutto, musica compresa. Fu piuttosto difficile pianificare un paio di giorni di soggiorno e garantirmi concerti, musei, palazzi reali, vedute e panorami. Riuscii a conciliarli così il Prater con la Donau Turm da pochi anni aperta al pubblico, la Cattedrale di Santo Stefano, il Palazzo Hofburg e l’immancabile Torta Sacher degustata nel suo tempio, il Sacher Café.

Poi fu la volta di Monaco di Baviera, ma prima mi fermai nella cittadina frontaliera di Kufstein, patria della leggendaria cristalleria Riedel. Allo spaccio aziendale divisi equamente gli acquisti tra calici per me e  soprammobili per la famiglia.

Poichè il capoluogo bavarese era (ed è) sinonimo di birra e di stinco di maiale, per non farmi mancare nulla optai per l’itinerario delle Sette Sorelle, nel senso di birrerie. Tra queste, certamente la Hofbräuhaus era la più ambita. Superato il trauma della folla che l’assediava, una volta seduto rimasi affascinato dai lunghi tavoli in legno, dagli affreschi sulle parenti e dai lampadari monumentali che donavano un pizzico d’eleganza all’ambiente. Fantastici i boccali di ceramica dei clienti abituali. Fra questi ci fu, per un vcerto periodo, anche Adolf Hitler, che nel Salone delle feste al primo piano tenne i suoi primi comizi. Poi fui uno degli ultimi visitatori della Bürgerbräukeller, situata nel quartiere Haidhausen, sul lato est del fiume Isar. La “vera” birreria hitleriana degli anni ’20, luogo di nascita del Partito Nazionalsocialista. Dopo tre o quattro anni dalla mia visita fu demolita.

La mia ultima meta fu La Foresta Nera, col viaggio da Baden-Baden a Friburgo per terminare a Donaueschingen. era la Germania che non mi aspettavo, ricca di vallate verdi, antiche abbazie, cascate, laghi, piccoli borghi fiabeschi coi tetti di paglia, in quel tempo ancora abitati, e gli orologi a cucù di Schöwald.

A Gutach mi ritrovai a ballare in mezzo alle palle, o meglio con donne di diverse età con in testa i cappelli tradizionali chiamati Bollenhüte (cappelli con le palle) con le nappe di lana colorate. Le nubili con le avevano rosse (erano ovviamente le mie preferite), le donne sposate invece le avevano nere ed erano da evitare per via della presenza di truci mariti. Finì tutto con una solenne abbuffata di Schwarzwälder Kirschtorte (torta di ciliege), veramente una goduria oltre che autentica bomba calorica. Per digerirla mi consigliarono il Kirschwasser, che non è una marca di acqua, come si potrebbe pensare dal nome, ma potente distillato di ciliege.

Prima di congedarmi e di risalire sulla fida Kadett per tornare a casa, mi concessi uno sguardo alla famosa sorgente del Danubio, nel cuore della città di Donaueschingen. Ciò che ne sgorga, mi spiegarono, è l’acqua piovana della Foresta Nera che filtra nel terreno, scorre sottoterra e torna alla luce in una vasca circolare appositamente costruita: la sorgente, Donauquelle!