Manager, vignaioli, chef, giornalisti e gente di sport riuniti a Dievole per parlare di vino, ospitalità e istanze “ di un territorio così iconico“. Ne esce un quadro in cui, tra prospettive Unesco e ritorno degli italiani, la parola d’ordine è “non omologare”.

 

Sono tre gli interrogativi che mi sono rimasti in testa dopo la conventionChianti Classico: exploring a unique way of living” tenutasi qualche giorno fa a Dievole, il wine resort del gruppo Abfv facente capo – con le consimili realtà di Bolgheri, Montalcino, Argentina, Uruguay, Napa Valley, Bordeaux e Australia – al magnate argentino Alejandro Bulgheroni.

La prima è una domanda in gran parte retorica: di che “unicità” si parla?

Il territorio del Chianti consiste infatti, e gli organizzatori ne erano talmente consapevoli da farne appunto il messaggio portante della convention stessa, nel non essere “unico”, bensì una realtà multipla, dai molti volti e dai molti piani. A cominciare dal nome: Chianti e basta se si parla di zona geografica, Chianti Classico se si parla di vino. Un territorio, sì, famosissimo a parole, ma poi non troppo nei fatti. Baricentrico ed eppure marginale. Ricco di eccellenze, ma pieno di fragilità strutturali e infrastrutturali. Iconico, ma stagionale. Cartolinesco forse, almeno nell’immaginario collettivo, ma in realtà cosi articolato da assumere di volta in volta sembianze diverse. Tutti elementi che aveva chiari e che ha ben spiegato il direttore generale di Abfv, Stefano Capurso, parlando delle prospettive del rapporto tra vino e ospitalità nella terra del Gallo Nero: “Si discetta tanto di sostenibilità“, ha detto, “ma bisogna capire che, qui, le accezioni del termine sono tante. Sostenibilità ambientale, certamente, attraverso la massima diffusione possibile del metodo biologico: la nostra del resto è già la docg più “bio” d’Italia. Ma anche geografico-amministrativa, sottolineata dalla recente adozione in etichetta delle U.g.a. (Unità geografiche aggiuntive, ndr). Tecnologica, se si pensa che in un’area pur così famosa il digital divide legato a carenti infrastrutture è ancora una realtà tangibile e diffusa, sociale, se si considera che la ricettività, legata o meno all’enoturismo, ha comunque una stagionalità così marcata da rendere difficile l’attecchimento di professionalità stabili cui attingere con continuità. Ed economica, da perseguire attraverso l’incentivazione a differenziare gli investimenti sul territorio ed evitando così la monocoltura“, ha concluso Capurso rivolgendosi a Filippo Gabbani, responsabile investimenti internazionali della Regione Toscana, e agli altri testimonial dell’ospitalità chiantigiana chiamati a spiegare il loro punto di vista: Laura Bianchi del Castello di Monsanto, Marco Pallanti del Castello di Ama e Filippo Mazzei del Castello di Fonterutoli.

Ed è dall’intervento di quest’ultimo che nasce la mia seconda domanda: di cosa, o di quale strategia, ha realmente “bisogno” il Chianti di oggi?

A parte il superamento dell’accennata dicotomia tra geografia e vino, storia infinita di cui si fatica a individuare l’esito, a parere di chi scrive una prima necessità è la difesa delle diversità e delle tante peculiarità del territorio, che possono essere a rischio da campagne di marketing omologanti. Tra queste potrebbe rientrare, con la sua massiccia iniezione di vincoli e di controlli, anche la già avviata e mille volte vagheggiata iscrizione al Patrimonio dell’Unesco? “Se aderire significa sottoporsi ulteriormente a norme rigide e a regole fisse che vanno contro la nostra vocazione,  come quelle, per fortuna già dribblate anni fa, del Pit regionale (il Piano di indirizzo territoriale con valenza paesaggistica, ndr), la mia risposta è no: questo è un territorio dinamico, già molto noto a livello internazionale, che deve potersi evolvere e non può essere ingabbiato con la scusa di ottenere ulteriore quanto superflua notorietà“, ha sostenuto senza mezzi termini Mazzei.

Il terzo interrogativo riguarda le prospettive e gli obbiettivi.

La parentesi del Covid ha resettato molto del turismo mondiale e dei relativi flussi. Anche in Chianti, negli ultimi due anni, sono massicciamente  tornati gli italiani e ciò ha indotto molte aziende a rimodulare le offerte anche in funzione del rinato mercato interno. Che ciò tuttavia, almeno nell’enoturismo chiantigiano, rappresenti un trend stabile, o comunque sostenuto a sufficienza tanto da giustificare il marcato riassetto di cui ho sentito parlare a Dievole, personalmente ho qualche dubbio.

Rimane in realtà, però, una quarta domanda: qual è la formula più idonea per trasferire all’opinione pubblica, attraverso i media, l’idea di questa complessità che caratterizza, al di là dei luoghi comuni e dell’iconografia, il territorio del Chianti Classico?

Non ho una risposta sul merito, ma ne ho una sul metodo: quello, scelto a Dievole, di mettere a confronto, anche con un certo coraggio, molti portavoce di realtà diverse e di visioni diverse mettendoli a lungo a contatto con i giornalisti (coi pro e i contro che ciò comporta) è molto più efficace dell’autoreferenzialità.