di FEDERICO FORMIGNANI
L’italiano e tutti i dialetti usano espressioni, dirette o metaforiche, per indicare sia il sentimento che l’atto carnale. Poetiche o meno, eccone un divertente regesto completo di note etimologiche.

 

Nel momento esatto in cui succede qualcosa di insolito, imprevedibile, o addirittura eccezionale, ecco che la gente sclera in un delirio di assembramenti, abbracci, pacche sulle spalle (esagerando). In qualche caso va oltre l’esagerazione, arrivando persino a pestarsi con impegno.

Si potrebbe quindi pensare che – al di là dell’avvenimento – c’è un reale bisogno di vicinanza dopo i mesi di solitudine della chiusura (parola di riserva di lockdown) che il famigerato Covid ci ha imposto: si intuisce che esplode qualcosa all’interno dei nostri corpi, forse uno stimolo naturale che fa desiderare il contatto fisico tra le persone, primo passo verso l’innamoramento, temporaneo o definitivo a seconda delle circostanze.

In altre parole, si tratta di “amore”, in tutte le salse e tutte le lingue.

A cominciare dal dialetto milanese e lombardo, non sempre manovrato con la perizia e l’affetto che una conoscenza approfondita richiederebbe; ma si sa, in un mondo di inglese arrembante fa fatica addirittura l’italiano a sopravvivere. Torniamo all’amore! Il verbo amare, nei dialetti lombardi, non esiste; si dice vorè bén; c’è anche l’amór, si capisce, ma è qualcosa di più profondo ed integrale, sia in senso affettivo che fisico. Per quanto riguarda i rapporti tra uomo e donna, i dialetti lombardi partono da una serie di espressioni che in un certo senso sono meno ricche rispetto a quelle italiane, ma che tuttavia finiscono per essere precise, quasi illuminanti: parlà a vün, a voeuna, insieme a dì sü di paróll dólz, precede di poco quel ciapà ‘na scüfia (prendersi una cotta) presaga di ben più concreti approcci. Infatti il bén, l’amór, la passión, portano le donne a fà la scigüètta (fare la civetta) e gli uomini a fà el gingìn, el gingèla (il cascamorto). Da qui, arrivare a limónà, rüscà e quindi fa l’amór in senso biblico, è un susseguirsi di eventi scontati e prevedibili.

Ma anche la lingua italiana non scherza! In un articolo pubblicato nel 1948 su Lingua Nostra, un filologo ha elencato una serie di frasi e di espressioni di rimpiazzo ai noti verbi filare e flirtare (notoriamente di matrice inglese, questo). Si comincia col dire paroline dolci, intendersela, frascheggiare, civettare, vagheggiare, fiorellare, fino al desueto dameggiare e si scopre che l’uomo, in un crescendo rossiniano, fa il galante, l’asino, il cascamorto, l’Amleto, il patirai, mentre la donna, molto più semplicemente, fa la svenevole. Insieme, superati i primi imbarazzi e rossori, continuano a limonare, pomiciare e anche lepegare (perlomeno, quelli di Genova), verbo questo la cui radice si ritrova nel trentino lipegàr (scivolare e, per traslato, corteggiare in modo untuoso, raggirante).

Il far l’amore finale completa l’iter del corteggiamento. Ora ci sarebbe da prendere in considerazione i molti, moltissimi termini (in dialetto e in lingua) con i quali vengono indicati gli organi della riproduzione dei due sessi. Argomento che non dovrebbe offendere un lettore attento e consapevole, perché si tratta di parole vive da secoli, largamente impiegate e mai per volgarità: semplicemente, il popolo le ha fatte proprie con naturalezza. Lo ha ricordato la glottologa Nora Galli de’ Paratesi:  i suoi studi sulle parole difficili non sono semplici elencazioni di vocaboli, ma ne approfondiscono gli aspetti storici e sociali in base ai quali certe espressioni, all’apparenza crude e fors’anche volgari, sono entrate nel parlato della penisola, pur se di fatto ostacolate o interdette in molti casi “dall’inconscio, dal pregiudizio, dal pudore e dalla convenienza”.

Parole proibite e metafore sessuali che ritroviamo (non è poi così sorprendente) in altre lingue e altri dialetti europei. Dal penis latino, a sua volta collegato al pásah sanscrito, derivano i lombardi ciólla, pirla e üsèll, la toscana bischero, la genovese belìn, la siciliana minchia (dal latino mentula, membro virile e mingere, orinare). Altri nomi dell’organo sono figli di parole che indicano oggetti a punta, bastoni a gambo, protuberanze, strumenti di lavoro o musicali, armi da fuoco, animali e vegetali; la fantasia non ha confini! L’usatissimo e onnipresente cazzo, pare sia collegabile all’innocente parola toscana cazza (mestolo). Passiamo all’organo femminile, che i medici maschilisti del Seicento definivano “sconcio della donna”. Ha un’origine naturale: dal latino cunnus (cavità). Molteplici le varianti in dialetto: la lombarda potta, la napoletana fessa, le romane fregna e sorca, la veneta mona e così via. Una cosa è certa: l’amore, in altre parole la vita, si nutrono dei corpi e dei contatti fra uomo e donna. Perché dunque negarne la fisicità e la naturalezza! Condizioni fisiche e mentali che si raggiungono nelle persone che vivono serenamente il percorso vitale che il destino ha loro assegnato.