Nella città pugliese c’è un bel museo dedicato al principale strumento di scrittura professionale degli ultimi 150 anni. Che, anche se ormai non lo usa quasi più nessuno, col suo fascino continua ad ispirare assai chi scrive per mestiere. Noi, per esempio.

 

Una delle cose più giuste, nel talk show che ha seguito la mia e altrui esibizione alla tastiera di storiche macchine da scrivere nel museo ad esse dedicato a Trani, durante la manifestazione “Vin’a Trani” di domenica scorsa, l’ha detta il mio amico Luciano Pignataro: “Sono strumenti dei quali ho nostalgia, ma che non rimpiango“.
Espressione perfetta per condividere quello che credo tutti noi quattro dattiloscrittori, chiamati a produrci in una cartella all’antica maniera, abbiamo pensato. E cioè che il fascino addirittura multisensoriale (i suoni, la saetta dei martelli, il profumo del nastro inchiostrato e del lubrificante, la fragranza della carta) che esercitano questi oggetti è ancora enorme, ma inadatto ai tempi d’oggi.
Tutto è diverso, perfino il modo di pensare la scrittura e di articolare i pensieri che la precedono, nutrendola.
Ne consegue che nessuno potrebbe realisticamente pensare di lavorare usando una Lettera 22, tranne chi può permetterselo per motivi di potere, vezzo o posizione. Lettera 22 della quale io per primo, sia chiaro, battendo sui tasti all’inizio con intimorita delicatezza, poi con vigore sempre maggiore fino a raggiungere la giusta dinamica, l’altro giorno ho avvertito immediatamente l’intrinseca potenza.
E’ vero, però: l’elogio della lentezza, più di pensiero che di scrittura, a cui la macchina da scrivere costringe non deve trasformarsi in un’elegia nè, tantomeno, in una nostalgia canaglia.
A come rendere allora percepibile, e in certi casi perfino tangibile, la vitalità che da questi attrezzi comunque promana, non foss’altro che per le suggestioni dettate dal prestigio delle dita che li hanno percossi (e qui passa davanti agli occhi l’inevitabile galleria dei Montanelli-Hemingway-Kerouac-Fleming-Woolf-Brera etc) ha pensato il cavalier Natale Pagano, presidente della Fondazione Seca (“Scripturae Evolutio Cum Arte“, cioè evoluzione della scrittura con arte), che nel Museo dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie-Nazareth gestisce il Museo della Macchina per Scrivere (qui): 400 pezzi posseduti e quasi 200 esposti in un allestimento arioso, ben organizzato e bellissimo, con un piano intero dedicato all’epopea dell’Olivetti.
Chiacchierando tra una teca e l’altra, Pagano mi ha detto una cosa importante: “Io sono un appassionato, non un collezionista di macchine da scrivere. Per decenni ne ho raccolte centinaia ma poi, proprio per evitare di farne feticci personali, da esse ho preso le distanze. Io e mia moglie ce ne siamo liberati, donandole alla Fondazione. Ora non sono più nostre, sono di tutti. E i cristalli che stanno sopra alle più preziose servono solo a proteggerle, non a renderle inaccessibili”.
Mi è parsa una riflessione del tutto condivisibile, che mi ha reso anche  più facile l’approccio a una raccolta che, in barba alla natura per forza di cose meccanica dei pezzi esposti, si condisce invece di un’umanità inattesa. Forse anche perchè, a ben pensarci, è la stessa meccanica ad essere, nella sua necessaria fisicità, umana. Tutta roba che si vede e si tocca: le macchine per il Braille, quelle da architetto per scrivere direttamente sui lucidi, quelle criptografiche per i messaggi cifrati, quelle delle SS con le rune, quelle giapponesi – incredibili – con un sistema di composizione degli ideogrammi. Poi ci sono il design, le cromature, le diverse funzionalità, le soluzioni tecniche più impensabili. Osservi certe macchinone monumentali, tutte smalto nero e oro, e ci vedi riflessa l’applicazione perfetta del principio vitruviano (“haec autem ita fieri debent, ut habeatur ratio firmitatis, utilitatis, venustatis“), cioè solidità, utilità e bellezza.
Memorabile lo slogan patriottico del 1920 per il lancio della storica Olivetti M 20 su uno sfondo di militi onusti di gloria della Grande Guerra: “Italiano, che hai combattuto, sofferto e vinto non preferire la macchina straniera all’italianissima Olivetti. La storia dell’Italia vittoriosa si deve scrivere con la macchina Olivetti“.
Delle tante, però, la mia preferita non poteva che essere una: la Typatune. E’ racchiusa in una custodia di legno ricoperta di finta pelle di coccodrillo rossa, ha 32 normali tasti e tutte le sembianze di una comune typewriter. Americana, naturalmente. Data di produzione strategica: 1945. Segni particolari: è un pianoforte. Invece di scrivere, suona. La usarono negli ospedali, dice la targhetta esplicativa sulla teca, come strumento di riabilitazione per i reduci del secondo conflitto mondiale.
Dagli inviati di guerra ai musicisti di pace, i tasti rimangono gli stessi.